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  • Un pò di film visti/rivisti ad Aprile tranne quelli pubblicati nel topico del cinema classico e Avengers endgame.


    Victor/Victoria di Blake Edwards (1982).

    Se molti registi della vecchia Hollywood ad eccezione di John Huston, Sydney Lumet e Don Siegel sono andati sparendo o calando dalla metà degli anni 60' in poi (compresi big come Hitchock o Wilder), Blake Edwards dopo aver dominato i botteghini negli anni 60' con le sue commedie e qualche dramma sembra dover seguire un destino simile a quello di tutti gli altri e sprofonda all'inferno con i flop di Hollywood Party (1968) ed il disastroso Operazioen Crepes Suzette (1970), quest'ultima ampiamente rimaneggiata dagli studios in fase di riprese e in post-produzione. Barcamenandosi come può Edwards alla fine degli anni 70 approfittando del crollo della New Hollywood e dei suoi successi con i film della Pantera Rosa, risorge dal baratro grazie a film come 10 (1979), S.O.B. (1981) e Victor/Victoria (1982).
    Quest'ultima pellicola è un remake di un film tedesco degli anni 30' non visto dal sottoscritto, ma credo alla fine il tutto sia stato molto rimaneggiato da parte di Blake Edwards (autore anche della sceneggiatura e produttore del film, poichè la mano del regista e dei suoi temi è pienamente visibile in tutto e per tutto.

    La dualità di Victor/Victoria è insita sin da subito nel titolo, che riflette la duplice possibilità di orientamento sessuale concessa all'essere umano; seppur non venga mai detto esplicitamente è sottinteso chiaramente che secondo il regista è pienamente accettabile provare esperienze con partner delllo stesso sesso, anche se il nostro orientamento sessuale è l'esatto opposto.
    Non si tratta di presa in giro o farsa, ma di un'esperienza di vita che porta ad un arricchimento personale e ad un concreto superamento dei propri pregiudizi nei confronti dell'omosessualità. Victoria (Julie Andrews), è una soprano di gran livello con un eccezionale "Mi" naturale capace di frantumare all'istante anche il più resistente bicchiere di vetro; il problema è che al momento per le donne non ci sono posti di lavoro nei club di Parigi. L'idea di Toddy (Robert Preston), un gay che riesce a mettersi sempre nei guai è quella di trasformare Victoria nel conte Polacco Victor, che recita e canta en travesti, facendo si che riesca ad ottenere finalmente degli ingaggi in club Parigini prestigiosi.

    La critica del regista quindi assume anche connotazione economica, finchè Victoria è donna, non riesce a trovare un lavoro nonostante le nuo notevoli doti canore, mentre quando si spaccia per qualcosa che non è, subito fioccano le offerte di lavoro e questo perchè la controparte Victor, viene percepito dai borghesi della Parigi degli anni 30' come una figura alternativa e trasgressiva; un intrattenitore da vedere più che per le sue doti da soprano, più come un'originale attrazione che gli impresari sfruttano abbondantemente per fare il tutto esaurito. D'altronde la stessa Victoria ritornare a mettere gli scarafaggi nelle insalate per non dover pagare il conto, non ne vuole di certo più sapere.
    Siamo innanzi ad un film sul travestimento, di cui Edwards porta a compimento tutto un discorso iniziato sin dagli anni 30' passando poi per il capolavoro di Wilder A Qualcuno Piace Caldo (1959), avvalendosi della massima possibilità espressiva data non solo dalla censura oramai scomparsa, ma anche dalla libertà finanziaria e artistica concessagli (Edwards si è sempre considerato uno scrittore, ma per avere controllo su tutto alla fine è diventato regista e poi produttore), per dire finalmente la sua su certi argomenti.

    Victoria è "una donna che finge di essere un uomo che finge di essere una donna" (che casino vero?), quindi verità e menzogna nel suo personaggio corrono di pari passo intrecciandosi costantemente a seconda dei momenti; anche perchè il gangster King Marchand (James Garner) ad amettere di essersi preso una cotta per un uomo non ci sta per niente e a tutti i costi cerca di affermare la sua virilità cercando di smascherare l'inganno della donna e confermare così di essere un vero "uomo".
    La frustrazione di King diventa piena impotenza quando in una normale routine sessuale con la sua amante Norma Cassady (Lesly Anna Warren), purtroppo il suo "amico" non funziona e questa è un'onta a cui deve porre assolutamente porre rimedio, d'altronde la stessa Norma non ci sta minimamente ad essere scaricata da King, perchè quest'ultimo prova un sentimento che non riesce a spiegare verso Victor.
    Viene sempre detto che l'amore è un sentimento inafferrabile ed inspiegabile, così' come il nostro orientamento sessuale non è un qualcosa di fisso ed immutabile; la tesi innovativa di Victor/Victoria sta proprio qui; non nel diritto di amare da parte di tutti; ma di poter amare come e chi vogliamo, a prescindere dal nostro effettivo orientamento sessuale predominante.

    La bionda svampita Norma rimane sorpresa dal fatto che Toddy è gay; secondo lei una donna come si deve potrebbe convertirlo all'eterosessualità; l'uomo prontamente ribalta l'assunto della ragazza, sostenendo che invece la giusta donna potrebbe fare l'opposto con lei, al che Norma replica che la cosa è assolutamente impossibile; d'altronde convertire un gay è lecito, ma un eterosessuale che passa all'altra sponda? No grazie. Questo al nostro Toddy però frega assolutamente zero, visto che si gode tranquillamente la sua vita ed è fiero del suo orientamento sessuale (d'altronde pare abbia molto successo con gli uomini), tanto che il suo personaggio è un gay fortemente autoironico della sua condizione e sui nomignoli che circolano su di lui (il gettonatisismo "checca" che prontamente esce dalla bocca di Norma quando scopre l'orientamento sessuale dell'uomo). In sostanza ci troviamo innanzi ad un personaggio omosessuale ritratto con prerizia e descritto senza troppi orpelli, da parte di Blake Edwards e questo in un film che ha quasi 40 anni.

    L'ambiguità sessuale e il gioco di travestimenti, sono calcati dal gran numero di inquadrature di specchi che rilevano l'impossibilità di stabilire una verità oggettiva in materia. Il tutto è reso ancor più pirotecnico dai numerosi numeri musicali coreografati meravigliosamente (siamo ai limiti del musical) e con una fotografia irrealistica (i viola ed i blu si sprecano), che trasmettono l'ambiguità della materia trattata. Difficile poi trovare una galleria di personaggi paragonabile a questa! In primis c'è una Julie Andrews in stato di grazia (d'altronde nel canto non ha rivali); dimenticatevi l'interpretazione regalata in Mary Poppins (1965) o Tutti Insieme Appassionatamente (1965), qui siamo ad un livello superiore ai precedenti, trovando in Victoria Grant, il ruolo più bello di tutta la sua carriera d'artista.
    La affianca un Robert Preston semplicemente adorabile, e soprattutto un James Garner che riesce a regalare una buona interpretazione; considerando i suoi standard direi che Blake Edwards ha fatto un miracolo con tale attore, che per me è sempre stato una mezza pippa o giù di lì. Al regista d'altronde più che la trama, nei suoi film si è sempre concentrato sul ritratto dei personaggi alle prese con situazioni comiche, perchè è la vita stessa ad essere comica tanto per cominciare. Il rischio di scadere nella farsa buffonesca c'era ed in effetti Edwards in altri film non sempre aveva trovato il giusto quilibro nella messa in scena e nell'uso delle gag (qua tutte riuscite, specie quella del fulmine).

    Costato sui 15 milioni (girato tutto negli studios di Pinewood), ne incassò circa 30 di milioni, suscitando scandalo all'epoca intorno alla figura di Julie Andrews al secondo ruolo controverso dopo S.O.B. (1979), ma ciò la farà diventare un'icona gay contribuendo a pensionare definitivamente Marry Poppins nell'immaginario americano. Il film ottenne 7 nomination agli oscar, tra cui miglior sceneggiatura (unica candidatura per Edwards in tutta la sua carriera), miglior attrice protagonista (Julie Andrws, che dovette scontrarsi contro la Streep di La Scelta di Sophie), miglior attore e attrice non protagonsita, portandosi a casa l'oscar per la migliro colonna sonora solamente. Pesa forse il fatto di aver incassato si bene, ma rispetto all'altro film sul travestismo di quell'anno Tootsie di Sydney Pollack, che al box office realizzò circa 6 volte gli incassi di Victor/Victoria, si comprende il perchè di ciò; inutile dire che il buon film con Dustin Hoffman come protagonista, viene beatamente asfaltato sia registicamente che concettualmente da questo capolavoro assoluto, pari solo ad Hollywood Party (1968), nella filmografia del regista.
    È ora di dare a Blake Edwards il giusto peso nella storia del cinema e portare il suo nome al pari di quello di altri maestri del cinema, dietro solo ai grandissimi, per l'originalità complessiva del suo modo di fare cinema senza compromessi e portatore di un'idea di cinema coerente nei suoi alti e bassi, sin dagli anni 50'.

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    • A Brighter Summer Day di Edward Yang (1991).

      Edward Yang fa parte della New Wave che tra la fine degli anni 80' e l'inizio degli anni 90' fece del cinema di Taiwan tra quelli più importanti ed interessanti del mondo. A Brighter Summer Day (1991), nella sua durata fluviale di ben 4 ore nella Taipei del 1960, viene considerato il suo miglior film stando ai giudizi della critica cinese e quella americana; purtroppo qui da noi il suo cinema fatica a trovare distribuzione tanto che da noi è giunto solamente Yi yi e uno e due (2000) per via del premio della regia vinto a Cannes, mentre il resto della sua produzione è totalmente misconosciuto qui da noi e vedibile solo nei festival specialistici, oppure con difficili ricerche su internet e sottotitoli fatti alla meglio e peggio.
      Dubito che in futuro qualche casa di distribuzione nostrana abbia il coraggio di portare in Home Video questo film, data la sua durata fluviale e sopratutto per la complessità dell'intreccio derivata dal grandissimo numero di personaggi (sono decine e decine, poi sti Taiwanesi hanno tutti la stessa faccia) e con almeno tre o quattro divagazioni dalla trama principale.

      Partendo dal personaggio del giovane Si'r, assistiamo al conflitto tra le bande di teppisti dei Little Park (figli di impiegati pubblici) contro quelli della 217 (figli degli apparati militari), che si contendono il territorio con continui conflitti e scontri anche sanguinosi tra i loro componenti. Si'r è più vicino ai ragazzi di Little Park, anche se non fa parte della loro banda, ha in comune con loro un esistenza prioiettata verso il nulla e quindi per affrontare il vuoto della vita, le giovani generazioni cercano di superare tale paura unendosi tra di loro in bande di teppisti facendo del cameratismo. Si'r figlio di rifugiati politici nazionalisti, vive un senso di insoddisfazione che gli impedisce una integrazione con la nuova realtà e questo lo prota sempre più a farsi trascinare dalle bande di teppisti.
      Parallelamente a loro, anche gli adulti vivono una situazione sospesa tra un futuro che non si vede ed un passato reciso del tutto a cui però guardano con rassegnato dolore nostalgico, poichè la maggior parte degli abitanti di Taiwan sono ex-nazionalisti che sono stati sconfitti nella guerra civile contro i comunisti guidati da Mao.

      A dispetto della luce citata nel titolo del film, tutti i nostri personaggi sono immersi in un'oscurità interiore dalla quale non riescono a liberarsi; la macchina da presa di Edward Yang tratteggia una pellicola composta da numerosi longtake in riprese fisse in campo medio che compongono quadri figurativi che rimandano al cinema di Yasujiro Ozu e di Kenji Mizoguchi, mescolati con film americani (di cui Yang sembra sottilmente critico, poichè c'è una sorta di egemonia culturale americana sia nelle canzoni che nei film, senza considerare alcuni soprannomi come quello dell'ex capo dei Little Park, cioè Honey) come Gioventù Bruciata mescolati a coming of age come L'Ultimo Spettacolo.
      Yang nell'arco di 4 ore mette in scena un'intera generazione Taiwanese senza più un passato, senza un futuro e senza alcuna base di valori culturali che riesca a dare una base ideologico-culturale in comune ai nuovi Taiwanesi.
      Edward Yang spesso colloca i nostri personaggi affacciati tra le porte o le ante dei futon, con uno sguardo perso nel vuoto per cercare di scorgere un futuro del tutto assente, perchè adottano tutti un punto di vista parziale e piccolo del loro mondo, in cui tutti si sono oramai autoreclusi.
      Non è un film per niente facile, per via delle numerose divagazioni, il gran numero di personaggi e per rappresentare una realtà totalmente lontana da qualsiasi concezione occidentale, ma se ci si mette d'impegno, si potranno aprire vasti orizzonti in cui si potrà affacciare e scoprire nuovi orizzonti del cinema.


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      • Il Buco di Jacques Becker (1960).

        Capolavoro del cinema francese e uno dei più grandi film della storia del cinema, nel Buco (1960) di Jacques Becker, ispirato ad alla storia vera di Jean Keraudy (in arte e nel film Roland) che il regista si porta come attore nel film, confluiscono molteplici stili cinematografici che vanno dalla narrazione classica, al noir sino a dei tocchi della nascente nouvelle vague francese (l'inizio in cui Roland rompe la Quarta Parete e la sequenza al parlatorio tra George e suo padre, ripresa in soggettiva). Ci troviamo innanzi al miglior film carcerario di sempre insieme ad Un Condannato a Morte è Fuggito di Robert Bresson (1956), ma senza l'elemento trascendente presente in quest'ultimo, visto che il Buco, sceglie territori più artistici ed artificiali perdendosi nella costruzione architettonica della prigione, la quale è un vero e proprio personaggio, tanto da diventare ispirazione cardine per tutti i film carcerario successivi, il cui epigono più riuscito sarà senz'altro Fuga da Alcatraz di Don Siegel (1979).

        La narrazione sceglie un approccio corale, basandosi su 4 attori tutti al debutto, di cui uno non professionista (Il tizio che interpreta Roland e ispiratore del film); a costoro si aggiungerà un quinto elemento, Gaspard (Marc Michel), un giovane di estrazione borghese e unica persona di cui sapremo l'effettivo passato è le motivazioni della sua condanna.
        Roland conoscendo la planimetria della prigione tramite sue informazioni, ha architettato un piano per evadere e Gaspard si unisce a loro in questo tentativo. La maggior parte del film è ambientato in questa angusta cella, dove cinque persone sono stipate alla meno peggio e si fa anche fatica a muoversi, dove i primi piani della mdp si concentrano sui piccoli oggetti e gli ingegnosi modi per procurarseli, utili per effettuare l'evasione cercando di sfuggire ai controlli delle guardie, ritratte tutte in modo negativo, ad eccezione di un brigadiere che consentirà ai nostri detenuti una vendetta particolare.

        Il taglio registico è di tipo cronachistico-narrativo, con varie sequenze in tempo reale come la celebre sequenza divoltre 3 minuti in cui i carcerati sfondano una piccola porzione di pavimento di cemento per farsi strada nei sotterranei e arrivare alle fognature per aprirsi un ulteriore passaggio. Becker gioca sui rumori e sul sonoro che si confondono con il frastuono giornaliero della vita della prigione, nonché sulla suspence che ne consegue per non destare il minimo sospetto da parte delle guardie carcerarie.
        La prigione assume connotati artificiali ed irrazionali mano a mano che ci si addentra nei sotterranei di essa, passando da dei settori vasti dove non c'è nulla se non pezzi di lettiera arrugginiti, a degli oscuri quanto angoscianti corridoi, in cui ci si addentra nella speranza di trovare un'uscita e non incappare nella ronda notturna delle guardie sino all'opprimente galleria fognaria la cui messa in scena ha chiari rimandi ai film di John Huston, in primis Giungla d'Asfalto (1950), nella ristrettezza orizzontale dei blocchi di cemento e delle tubature, il tutto valorizzato da una eccellente fotografia, che tocca l'apice espressivo poetico quando Gaspard vede fuori dal tombino finalmente un temporaneo sapore di libertà, prima di ritornare in cella per dover fuggire tutti il giorno dopo.
        Il Buco è un film dell'amicizia maschile e sulla necessità di fiducia verso il prossimo, in un ambiente come quello carcerario che tende ad appiattire il tutto e distruggere ogni legame con conseguenze drammatiche.

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        • 4 Mesi 3 Settimane e 2 Giorni di Christian Mungiu (2007).

          Un utente su Badtaste aveva detto che il cinema della Romania attualmente è il migliore al mondo, così ho deciso di partire con un titolo ed un regista quotato come Christian Mungiu e l'esordio ha ripagato le aspettative visto che 4 Mesi, 3 Settimane e 2 Giorni (2007), si può annoverare tra i film chiave del nuovo millennio e quindi tra i capolavori assoluti della storia del cinema e vincitore a sorpresa della Palma d'oro a Cannes e di numerosi altri premi.
          Non è un film sull'aborto in sé per sé su cui c'è stato un dibattito internazionale abbastanza calcato intorno al film, ma come evidenzio' la critica rumena ed il noto critico inglese Peter Bradshaw, ci troviamo innanzi ad un dramma intimo che partendo da una questione etico-morale (l'aborto di Gabita), mette a dura prova l'effettivo legame tra Gabita (Laura Vasilu) e Otilia (Anamaria Marinca), due studentesse universitarie ai tempi della fase finale della dittatura di Ceausescu, nel 1987.

          Lo stile registico di Mungiu consiste in camera a mano con lunghi e complessi piani sequenza, uniti a dei longtake a camera fissa in sequenze di vivace confronto come il faccia a faccia tra Otilia e una donna alla reception di un albergo e la cena del compleanno della madre di Adi, quest'ultimo ragazzo di Otilia.
          Lo stile adoperato mantiene la giusta distanza tra i personaggi principali, così come nonostante il fermo immagine prolungato sul feto, il regista saggiamente non sceglie di prendere posizione su tale delicata materia, che dovrebbe essere rimessa alla totale autodeterminazione della donna.
          Più che sull'aborto in sé, la pellicola mette in scena un dramma etico dove l'intimità sofferta di tale scelta è messa in discussione dalla burocrazia e dalla legislazione di un paese immerso nella totale dittatura, dove anche una questione estremamente personale, diventa un incubo burocratico e materiale dove lo Stato pretende di controllare.

          Il tutto è accompagnato da una fotografia minimalista desaturata, che immerge appieno lo spettatore nel 1987, dove ogni atto per eseguire un aborto clandestino, deve essere eseguito con circospezione, pena l'arresto. La macchina da presa segue continuamente Otilia per le strade notturne e senza alcuna illuminazione della città, trascinandola in una sorta incubo metropolitano ansiogeno sulla scia di Fuori Orario di Martin Scorsese (1985), dove il suo personaggio affannosamente cerca di liberarsi del corpo del "reato", come se fosse una criminale ricercata, che si aggira tra strade disastrate e decadenti palazzoni verticali di puro cemento.
          Bravi tutti e tre gli attori principali, con menzione speciale per il medico clandestino interpretato da Vlad Ivanov e soprattutto per Anamaria Marinca, che riesce a dare concreto spessore ai molteplici drammi etici del suo personaggio, specie nella lunga sequenza della cena, dove sfoggia un'espressione mista tra ascolto passivo, sguardo semi-assente e latente tensione per l'amica lasciata temporaneamente in albergo, avrebbe meritato un premio a Cannes anche lei come miglior attrice senza ombra di dubbio.
          Costato solo 600.000 dollari, il film fu un buon successo e vinse numerosi premi internazionali, ma inspiegabilmente non l'oscar a cui neanche venne nominato.

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          • Showgirls di Paul Verhoeven (1995).

            «Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati è un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista.» (Pier Paolo Pasolini).

            Condivido questo pensiero di Pasolini estratto dall'ultima intervista prima di essere ucciso, a patto che chi scandalizza lo faccia con un preciso scopo e con un'idea forte alle spalle, cosa che purtroppo per gli sparuti difensori di Showgirls di Paul Verhoeven (1995), manca del tutto. Il nostro simpatico mattacchione sin da quando mise piede ad Hollywood, fece parlare molto di se grazie a film come Robocop (1987) e Atto di Forza (1990), che presentavano scenari accattivanti, una satira tramite un buon uso degli spot pubblicitari unita con una gran quantità di violenza, contribuendo a rendere i suoi film molto chiacchierati e a tutt'oggi due buoni cult.
            Verhoeven poteva accontentarsi di fare dell'onesto intrattenimento, però ad un certo punto decide di alzare l'asticella dello scandalo con Basic Istinct (1992), tedioso thriller erotico famoso per aver mostrato l'origine del mondo di Sharon Stone, ma terribilmente datato e sciocco se visto oggi, poichè il regista ha puntato solo allo scandalo dimenticandosi di costruire una trama credibile intorno al tutto. Nonostante ciò fu un successone ai botteghini, così non avendone abbastanza nel 1995 con lo sceneggiatore del precedente film, Verhoeven si spinge allo stremo e sforna l'inguardabile Showgirls, l'apice dell'inconsistenza cinematografica anni 90' e da annoverare tra i più brutti film mai realizzati nella storia del cinema.

            Se il problema del cinema americano odierno è l'estrema decompressione, Showgirls non soffre di questi problemi; nei primi 10 minuti di film conosciamo Nomi Malone (Elizabeth Berkley), una spiantata dal passato oscuro che sogna di diventare una ballerina e sfondare nel mondo dello show business di Los Angeles; arrivata nella città le rubano la valigia ma grazie all'aiuto insperato di una ragazza, viene accolta in casa sua ed introdotta nel mondo dei topless bar, cominciando così per la nostra Nomi la scalata verso la vetta.
            Una pellicola odierna probabilmente per narrare tutto questo di minuti ce ne avrebbe messi almeno 30, ma con Showgirls non c'è un attimo di pausa poichè la narrazione procede diritta spedita senza alcuna meta, poichè il film non è altro che una carrellata di tette e culi in bella vista, mostrati allo spettatore nelle numerose esibizioni di danza nei locali della città.
            Ho letto qualche critico che ha avuto l'ardire di scrivere che ci troviamo inannzi ad un Eva contro Eva (1950), noto capolavoro del regista Joseph L. Mankiewicz, dove in teoria Elizabeth sarebbe Anne Baxer (e quindi la giovane arrivista disposta a tutto) mentre Gina Gerson che interpreta Cristal (la star dello Stardust), dovrebbe essere una moderna Bette Davis (poveri noi, quanto siamo peggiorati), la diva presente in scena da anni e rispettata da tutti che non si sogna di certo di lasciare il suo trono. Purtroppo tali critici prima di lanciarsi in insensati paragoni, dovrebbero aver più rispetto della storia del cinema, Mankiewicz all'epoca probabilmente era il miglior sceneggiatore vivente dietro l'innarrivabile Billy Wilder, mentre i dialoghi di questa poltiglia forse sono degni delle peggiori commedie sexy all'italiana degli anni 70'.

            Non fatevi fuoriviare da chi afferma che tali dialoghi sono scritti appositamente in modo delirante per sottolineare la superficialità ed il nulla del mondo dello spettacolo, perchè non è assolutamente vero e Verhoven non è di certo un regista in grado di dare una profondità o quanto meno uno spessore a ciò che mostra tramite la macchina da presa, fermandosi solo alla superficie delle cose. L'estetica luccicante ed i colori accesi, sono solo un inutile quanto pretenzioso orpello atto a far credere che dietro cotanta scemenza vi sia una qualche profondità, quando quello che emerge chiaramente è solo il vuoto di questo film soft-porn che vorrebbe essere tanto trasgressivo, scandalizzante e provocatorio, ma alla fine riesce ad essere solo tremendamente volgare, ma di una volgarità che dà solo fastidio perchè è mero esibizionismo (Henrietta è tra le cose più schifose mai viste al cinema, qualcuno ha anche osato improbi quanto ridicoli paragoni con la Gradisca Felliniana! Come si suol dire... ho poco da dire ma devo dirlo), anche poco coraggioso tra l'altro visto che di nudi maschili non ce ne sono proprio, limitandosi ad un lato B maschile durante l'ingresso in piscina (altrimenti ci saremo trovato innanzi ad un porno, ma un pezzo da 90 come Verhoeven non si abbassa a fare un porno).
            Il tanto decantato erotismo è praticamente assente, evidentemente perso dopo la ventesima inquadratura di nudo femminile; tutto sa di plastica, falso, artefatto, freddo e distante, non c'è niente di pruriginoso o provocatorio in questo film, poichè è un'idea di cinema che manca totalmente in Showgirls. A zittire qualunque lettura più profonda, ci pensa la delirante quanto stupida parte finale (non uso la parola oscena, perchè è tutto il film a fare pena dall'inizio alla fine) dove Verhoeven torna sui suoi passi e chiude il tutto all'insegna del moralismo più buonista (Eva contro Eva 45 anni prima, era andato fino in fondo almeno).
            Se con Basic Istinct il nostro simpatico mattacchione fregò tutti, con Showgirls il pubblico intelligentemente non si fece ingannare e disertò le sale facendo floppare meritatamente questo film che alla fin fine è peggio anche di certe commedie sexy all'italiana con protagonista Edwige Fenech; almeno queste ultime non avevano la pretesa di apparire pretenziose rispetto allo scopo da loro prefissato ed erano costate quanto uno degli innumerevoli vestiti firmati della protagonista.

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            • Originariamente inviato da trabant Visualizza il messaggio

              Mug di Margorzata Szumowska
              la parte iniziale del film dice praticamente tutto, e contiene le scene migliori, poi dopo l'incidente le idee vengono ulteriormente esplicitate anche se non si aggiunge molto, però il livello resta comunque buono
              molto interessante la fotografia
              Io l'ho trovato molto scialbo, noioso e, alla fine dei conti, inutile. Non si raggiunge mai una qualche intensità (a parte forse verso la fine, quando però del film ormai non te ne frega più niente), al protagonista non ci si affeziona mai e la tentazione di mollare è grande. Come nel trucido Elles anche qui c'è una scena di danza totalmente stracult (ed è incredibile come la Szumowska nonostante non sia minimamente capace di farlo continui a girare scene di questo tipo) e alcuni movimenti di macchina sono se non sbagliati, quantomeno brutti. Dovrei recuperare gli altri due film di questa scarsona polacca (Body e In the name of) giusto per vedere se ne ha mai azzeccato mezzo, ma a questo punto, forse, sarebbe meglio dedicare il mio tempo ad altre visioni.

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              • È triste che un film straordinario come Showgirls venga demolito in maniera così sciocca, superficiale e telefonata, come se non si aspettasse altro che vederlo per poter parlarne male. Ma visto il soggetto in questione mi sarei stupito del contrario

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                • Originariamente inviato da SE7EN Visualizza il messaggio
                  È triste che un film straordinario come Showgirls venga demolito in maniera così sciocca, superficiale e telefonata, come se non si aspettasse altro che vederlo per poter parlarne male. Ma visto il soggetto in questione mi sarei stupito del contrario
                  Ho demolito il filmone degli ultimi 30 anni, come ho potuto incorrere in tale errore.
                  Ho letto le poche recensioni "positive", sono tutte arrampicate sugli specchi.
                  Ultima modifica di Sensei; 03 maggio 19, 22:39.

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                  • E niente: ho provato per la seconda volta a guardare Avengers: Age of Ultron e per la seconda volta mi sono profondamente addormentata a neanche metà film.
                    "It's so easy to laugh / It's so easy to hate / It takes strength to be gentle and kind"
                    The Smiths - I Know It's Over

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                    • Tra i molti difetti, la sequenza di Thor è imbarazzante in quel film. È stata montata malissimo ed introdotta e sviluppata peggio, è un pezzo di film che va a spasso per fatti suoi. Come si fa a mandare roba del genere al cinema.

                      O la sviluppi interamente (hanno tagliato un casino e si vede), oppure la togli dal film e giravi un paio di reshoot. Così non ha senso per niente.

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                      • Io qualche giorno fa mi son visto Loving Vincent, che purtroppo avevo perso al cinema. Sarà anche il fatto d'esser appassionato della figura artistica di Vincent Van Gogh, comunque sia il film mi è piaciuto molto. Ovviamente il lato visivo lascia sbalorditi (con il buon contrasto dato dal bianco e nero delle parti in flashback) con i rimandi alla tavolozza e allo stile del pittore olandese, con tanto di citazioni ad alcuni suoi celebri dipinti. Non oso immaginare il lavoro di dipingere tutte quelle inquadrature. Sono rimasto anche sorpreso nel ritrovare le sembianze degli attori nei personaggi del film attraverso il rotoscope: io pensavo si fossero prestati solo come doppiatori! Ho apprezzato pure l'impianto della sceneggiatura volto a scavare in quegli ultimi giorni del pittore e ai suoi legami con gli abitanti di Auvers-sur-Oise, con quell'aria di mistero che dà un tocco interessante al film, il quale si mantiene più prudente rispetto alla parte finale del più recente film di Julian Schnabel. Non mi son dispiaciute neanche le musiche di Clint Mansell.

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                        • Melancholia (L. Diaz, 2008)

                          Anche se avevo già visto altri film del filippino, confesso che ero abbastanza spaventato all'idea di affrontare un'opera di SETTE ORE E MEZZA, ma dopo un'esperienza di questo tipo non riesco a non pensare che oggi Lav Diaz sia uno dei più grandi autori del nostro tempo, qualcuno che riesce a darti l'illusione che il cinema possa essere un'arte che in quest'era parta nuovamente da zero, un mondo nuovo tutto da scoprire. Più che tanti ragionamenti sullo stile o sul linguaggio, quello che mi viene da dire dapprincipio è che Diaz è un grandissimo narratore di storie e personaggi, non a caso in passato si è ispirato alla letteratura russa in più di un'occasione: la durata monstre dei suoi film gli è necessaria perché parte sempre da lontanissimo nel raccontare i personaggi, all'inizio sono come acquerelli sfocati che via via prendono forma e consistenza, finendo per incrociare le loro vite.

                          Le sequenze possono durare anche 20 minuti di fila, ma non c'è mai il compiacimento estetizzante di certo cinema autoriale, succede sempre parecchio nell'inquadratura, esplorando i personaggi attraverso i dialoghi o semplici gesti, e non mancano autentici colpi di scena. Alla fine ne emerge un ritratto fluviale, epico, di tante vite dentro un quadro socio-politico delle Filippine a dir poco complicato (per usare un eufemismo). Questa lunghezza mi fa pensare inevitabilmente al grande Cassavetes, e oggi forse Diaz è l'unico insieme a Kechiche che come il regista americano riesce a inseguire la Vita lungo tutta la sua durata reale, senza per questo stremare lo spettatore, ma anzi coinvolgendolo intensamente. La scelta del b/n e la ricercatezza con cui gli attori sono disposti nella cornice dell'inquadratura trascendono l'istintività documentarista, creando una sorta di trip ipnotico e allucinato, come se tu spettatore fossi risucchiato parimenti dentro le vicende, accanto ai protagonisti.

                          Chiaramente non è un film consigliabile a chiunque, ma sarebbe anche un errore lasciarsi intimorire dalla durata, oppure perché appartiene a una cinematografia "esotica", o cedere alle stupide battutine di certi pseudo-critici festivalieri. Questo è cinema umanista che quasi più nessuno fa oggi, che riesce ad emozionare profondamente una volta che ci si lascia andare alla lentezza impetuosa - sembra un ossimoro ma bisogna guardarlo per capire, non so spiegarlo - e all'incredibile amore che il regista prova per tutti i suoi personaggi. Non ho timore di affermare che Lav Diaz sia un maestro, e il suo cinema una delle poche esperienze autenticamente stupefacenti in cui è possibile imbattersi.

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                            • Originariamente inviato da Sensei Visualizza il messaggio
                              Ho demolito il filmone degli ultimi 30 anni, come ho potuto incorrere in tale errore.
                              Non sarebbe l’unico, c’è poco da stupirsi.

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                              • Originariamente inviato da Mr. Babeido Visualizza il messaggio
                                Io qualche giorno fa mi son visto Loving Vincent, che purtroppo avevo perso al cinema. Sarà anche il fatto d'esser appassionato della figura artistica di Vincent Van Gogh, comunque sia il film mi è piaciuto molto. Ovviamente il lato visivo lascia sbalorditi (con il buon contrasto dato dal bianco e nero delle parti in flashback) con i rimandi alla tavolozza e allo stile del pittore olandese, con tanto di citazioni ad alcuni suoi celebri dipinti. Non oso immaginare il lavoro di dipingere tutte quelle inquadrature. Sono rimasto anche sorpreso nel ritrovare le sembianze degli attori nei personaggi del film attraverso il rotoscope: io pensavo si fossero prestati solo come doppiatori! Ho apprezzato pure l'impianto della sceneggiatura volto a scavare in quegli ultimi giorni del pittore e ai suoi legami con gli abitanti di Auvers-sur-Oise, con quell'aria di mistero che dà un tocco interessante al film, il quale si mantiene più prudente rispetto alla parte finale del più recente film di Julian Schnabel. Non mi son dispiaciute neanche le musiche di Clint Mansell.
                                film bellissimo, una sorta di Quarto Potere su Van Gogh

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