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  • Originariamente inviato da Atlantide Visualizza il messaggio

    film bellissimo, una sorta di Quarto Potere su Van Gogh
    Diversamente oggi ho visto: Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità - Julian Schnabel

    Avrei voluto un film di 4 ore con solo Vincent a vagare per le campagne di Arles stralunato ed illuminato, ma in realtà c'è anche altro. Dei bei dialoghi dove le cose dette, in alcuni casi, sono un di più, ma anche così ho provato affetto ed empatia per questo film che mette al centro della scena un Vincent respinto. Bravo Defoe, ma anche gli altri se la cavano. C'è un pochino troppa linearità, ma nel complesso, malgrado tutto, mi è piaciuto, un Van Gogh in chiave ascetica. Come se fosse il Vicent del futuro che parla agli uomini del suo tempo che non lo comprendono e a pensarci bene questo è il guizzo di questo film, una chiave di lettura inedita (che non mostra volutamente la follia e fa leva più sullo spirtuale/concettuale.). Avrei voluto un pò più di sporcizia, ma ripeto, per me è molto buono. Mi avete ricordato di Loving Vincent e a questo punto recupero anche quello.
    Ultima modifica di loStraniero; 04 maggio 19, 22:32.

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    • Ho visto Love is strange e Little men di Ira Sachs (sempre in preparazione a Cannes 2019)... che dire? Mi sono piaciuti veramente tanto... per la delicatezza del tocco, la capacità di restituire con verità certe situazioni, certe dinamiche (familiari)... Non è la solita roba indipendente, da Sundance, Sachs è un autore vero, ha un suo sguardo, un suo stile... sono molto contento che Fremaux abbia deciso di metterlo in concorso... (e teniamolo anche d'occhio... Frankie, con la Huppert protagonista, potrebbe essere un film da Palma d'oro).
      Ultima modifica di Fish_seeks_water; 05 maggio 19, 16:48.

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      • Mektoub, My Love: Canto Uno - Abdellatif Kechiche

        E' stato già detto molto, se non tutto. Da un lato c'è l'artista (Amin) che contempla estasiato le sue creature, mentre quelle danzano e vivono in un estate in controluce. Inzia con l'atto carnale, per poi lasciare correre il desiderio di corpi di vita, di luce, di possesso. Sarà molto interessante capire se il proseguio si allontanerà di quei giorni e magari li racconterà nelle chiacchere dei personaggi invecchiati anche di poco. Ed è comunque davvero un piacere ascoltare quei dialoghi che, come in Cous Cous, funzionano con fluidità sorprendente...e così ho voluto ripescare un film che in qualche modo ricorda questo...

        Il Raggio Verde - Éric Rohmer

        Vince nel 1986 il leone D'oro a Venezia e devo dire che il premio è a dir poco meritato. Buona parte del film passa nell'incredibile recitazione di Marie Rivière (si è occupata assieme a Rohmer della sceneggiatura) che da vita ad un personaggio maledettemente vivo e perfetto, sia nei gesti (sempre misurati) che nelle parole.Dimenticavo il soggetto è piuttosto semplice: Delphine perde poco prima di partire per le vacanza la sua amica e proverà a rifarsi in altre mete facendo ovviamente incontri sul suo cammino. C'è una seconda lettura che corre lungo il racconto, quella del turismo frenetico, d'assalo, ma onestamente è più interessante scrutare il pensiero di Delphine per cui è facile provare empatia e rigetto allo stesso tempo. Invece la costruzione poetica di Romer che cita Verne è davvero mirabile. Il film è il quinto del ciclo delle Commedie e Proverbie e in qualche modo proverò a cercare gli altri.

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        • Ho visto Intervento divino di Elia Suleiman... bello, molto. E' un film che racconta il conflitto israelo-palestinese (il regista è arabo ma vive in Israele) ma utilizzando, insolitamente, i toni della commedia surreale e grottesca. La narrazione è frammentaria e procede per gag, lasciando il dramma, il dolore sullo sfondo (o tra le righe). Elia Suleiman, qui anche attore, è una specie di Buster Keaton, un osservatore muto e impassibile delle cose che accadono, della quotidianità grottesca e folle e violenta di chi, palestinese, vive in quei territori.
          E' un cinema che non saprei a chi apparentare... ho pensato a Roy Andersson (anche se lì il discorso è esistenziale non politico) e Kaurismaki. Ad ogni modo, proverò a recuperare altro di lui (Il tempo che ci rimane, ad esempio) in attesa di vedere come verrà accolto, tra una settimana a Cannes, il suo nuovo film.

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          • Ted Bundy - Fascino criminale

            Sarà che amo le vicende dei serial killer e che quella di Ted Bundy è tra le più iconiche nel suo essere incistata nelle carni dell'America, mi è piaciuto pochissimo il taglio che è stato dato a questo film, di fatto un prodotto concepito unicamente per la carriera di Efron. Non ci sono spazio (Stati Uniti), tempo (gli anni '70 e '80) , vittime, ambiguità di sorta, le vicende familiari che tanto ebbero peso nello sviluppo della sua psiche malata, financo dettagli banali (cosa fa dopo essere evaso? come si organizza? boh). C'è solo questo personaggio cool e generoso e la sua storia d'amore vera, sincera, per una patetica ragazza che ogni volta che compare uccide, lei sì, una volta di più il film. Mi sorprende che un documentarista attento come Berlinger se ne sia uscito con questa tesi improponibile secondo cui in Bundy ci fosse un lato straordinariamente positivo e uno negativo che sceglie di fatto di non mostrare mai: non esiste un solo serial killer così, proprio per definizione, essendo individui freddi e dediti alla manipolazione. Lo stesso Bundy brillante avvocato di se stesso è un falso clamoroso, in realtà fu abbastanza goffo durante il processo e il famoso litigio con il giudice che gli intimava di non sventolargli il dito davanti avvenne al culmine della frustrazione da parte di questo narcisista che più passava il tempo più si mostrava per quello che era, fondamentalmente un coglione. Ecco, a chi fosse interessato consiglio di leggere il libro di Ann Rule, quello sì opera non tanto completa (non si pretendeva questo dal film, ci mancherebbe) quanto assolutamente credibile e dettagliata nel presentare un individuo certamente interessante ma con una propensione alla mediocrità anche nella vita comune che evidentemente era inaccettabile per Efron, un Bundy totalmente fallace.
            Ultima modifica di Massi; 10 maggio 19, 13:11.

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            • "Si gira a Manhattan": Se amate "Boris" dovete recuperare assolutamente questo piccolo gioiellino. Un film semplice che scalda il cuore e che mostra tutto quello che si può creare con una sola location, un film degno del miglior tarantino, sia per i dialoghi brillanti, sia per i personaggi (sgangherata trooupe) che entrano subito nel cuore dello spettatore

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              • Ho paura per il film su Bundy, ma andrò a vederlo comunque.
                Ho letto il libro di Ann Rule e consiglio il documentario in 4 puntate disponibile su Netflix per gli amanti di queste vicende.

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                • Originariamente inviato da MrCarrey Visualizza il messaggio
                  consiglio il documentario in 4 puntate disponibile su Netflix per gli amanti di queste vicende.
                  Ma è in italiano?

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                  • Sottotitolato.
                    Screenshot_2019-05-10-14-38-54-1.png

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                    • Non male il documentario, però 4 ore sono davvero troppe.

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                      • Ragazzi, esistono 3 versioni de L'ultimo dei Mohicani di Mann. Quale mi consigliate?


                        Intanto ho visto Glass di Shyamalan

                        SPOILER. Purtroppo è un film poco riuscito, ma che mi sento di salvare per il trasporto emotivo e le buone intenzioni; come spesso capita nell'episodio finale di una saga/trilogia, esso vive su quanto di buono costruito nei capitoli precedenti (e per me Split e Unbreakable sono bellissimi).
                        Il primo problema è la poca carne al fuoco, con la prima ora che è un riassunto e la presenza di alcune scene ridondanti. Il secondo e per me più grave problema è il contesto poco credibile. In Unbreakable tutto il contorno era credibile, realistico, medio-mediocre; per questo eravamo scettici, curiosi e poi meravigliati dalla scoperta dei poteri di Dunn, che era anche una scoperta di sè, del proprio posto nel mondo, e della fiducia in se stessi. In Glass invece le capacità leggermente sovrumane dei protagonisti sono la cosa più semplice da credere a fronte di organizzazioni segrete con tatuaggi riconoscitivi ed obiettivi fumosi (idea ridicola e che spunta fuori dal nulla), e tutta una serie di altre piccole cose, depotenziando enormemente il messaggio alla base del film e rischiando di far scivolare tutto nel ridicolo. Oltre che dannosa è pure un'aggiunta inutile: si sarebbe potuto benissimo uccidere Dunn e Kevin in altri modi, realistici, senza queste complicazioni.
                        Le musiche sono anonime (se non quando ritorna il tema di Unbreakable) e certe inquadrature iper-ravvicinate durante i combattimenti per nascondere i limiti di budget sono brutte. Gli attori danno una grande prestazione, tutti.
                        Ultima modifica di Cooper96; 11 maggio 19, 15:03.
                        Spoiler! Mostra

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                        • Ho provato a riguardare il primo Avengers e devo dire che è una roba desolante per come è invecchiato male, il montaggio presenta degli stacchi imbarazzanti e gli effetti speciali sono a tratti proprio brutti. Veramente siamo dalle parti di una serie tv più che del cinema come lo conosciamo, ho idea che tutta la baracca verrà polverizzata dal fattore tempo.

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                          • quali sarebbero le scene con gli stacchi che ti hanno fatto venire la pelle d'oca? Io, mentre riguardavo delle clip su youtube sono rimasto sconcertato dal respiro "televisivo"

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                            • Originariamente inviato da Atlantide Visualizza il messaggio
                              quali sarebbero le scene con gli stacchi che ti hanno fatto venire la pelle d'oca? Io, mentre riguardavo delle clip su youtube sono rimasto sconcertato dal respiro "televisivo"
                              Mi viene in mente la lotta tra Thor e Loki, una cosa molto brutta. Sì, è roba estremamente televisiva, poco da fare.

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                              • Big Fish di Tim Burton (2003).

                                Mi ricordo che quando frequentavo le elementari, come sport praticavo il nuoto e verso la fine di Maggio, prima della pausa estiva, la scuola nuoto era solita fare una manifestazione finale dove a gruppi di 8, ci si sfidava in gare di velocità con uno stile scelto a caso. Capitò lo stile libero e nella batteria con me, c'era contro anche un mio amico di scuola, quindi la competizione era estremamente alta. Il sottoscritto vinse la gara ed il mio amico arrivò secondo, fino a qui nulla di eclatante, se non per il fatto che quando andavamo a scuola la suddetta gara tramite i nostri racconti era finita per assumere connotati irreali, perchè ogni volta che lo raccontavamo, ci aggiungevamo un particolare nuovo per stupire i compagni di classe e alla fine quell'episodio irrilevante e anonimo della mia vita è diventato un qualcosa di leggendario, da cui oramai non saprei scindere più realtà e finzione (complice anche i molti anni trascorsi).
                                Secondo la voce narrante che ci accompagna lungo le due ore di Big Fish - Le Storie di una Vita incredibile di Tim Burton (2003), una persona a furia di raccontare storie, finisce per diventare essa stessa quelle storie. Edward Bloom anziano (Albert Finney), di storie ne racconta a bizzeffe da una vita, l'ascoltatore non lo prende molto sul serio, ma comunque resta affascinato dall'incredibile fantasia infuse nei suoi racconti che mista alla sua incredibile arte oratoria. Il figlio dell'uomo, Will Bloom (Billy Crudup), se da piccolo era felice di tali storie, mano mano che è cresciuto ha cominciato a mostrare sempre più insofferenza verso il padre e le sue storie, sino a rompere con lui la sera del suo matrimonio poichè è rimasto deluso dalla natura fittizia di esse e dalla poca serietà di suo padre.
                                La malattia del padre qualche anno dopo, spingerà il figlio e ritornare dai suoi genitori e cercare di capire cosa sia veramente Edward Bloom dietro quella miriade di storie.

                                Dopo l'orribile remake del Pianeta delle Scimmie (1999), nonostante il successo al botteghino del film, la fama critica di Tim Burton era molto appannata dopo un decennio dove era riuscito comunque a conquistarsi una schiera di ammiratori. La morte del padre e della madre nel giro di due anni, spingerà il regista ad interessarsi ad un progetto dove un figlio in contrasto con il padre, cercherà di intraprendere un percorso di scoperta personale sulla natura del genitore.
                                Big Fish quindi nasce da un'esigenza personale del regista, il quale partendo lui stesso da un rapporto quasi inesistente con i suoi genitori, imbastisce un racconto dove mito e realtà sono talmente intersecati l'uno nell'altro, che alla fine è impossibile risalire ad una verità oggettiva.
                                Il passato di Edward Bloom è frutto delle sue parole, quindi sappiamo di certo che l'uomo ha ricamato sopra molti elementi (l'effetto ovattato delle sequenze ambientate del passato, conferiscono un'atmosfera da lavori in corso al flusso dei suoi ricordi, come se Edward in quel momento tramite le sua fantasia stesse costruendo la storia più importante, cioè la sua vita), che hanno fatto si che molte sue azioni passate, siano diventante un qualcosa di mitologico; un mito che ha contribuito a formare il personaggio di Edward Bloom, che per tutta la vita non ha fatto altro che essere sé stesso, come seccamente afferma a suo figlio che seduto sulla sedia accanto al suo letto, gli implora di dirgli chi è veramente.

                                La vita dell'essere umano è per lo più anonima e scarna nei suoi avvenimenti e sia nel modo in cui viene affrontata; un'esistenza piatta e borghese non si addice ad una personalità come Tim Burton, né è consona ai suoi personaggi, che si sono sempre sentiti differenti rispetto al conformismo della società che li circondava. La diversità per il regista non è mai stata etnica o razziale, ma di pura e semplice sensibilità; i personaggi di Tim Burton soffrono e vengono mal visti dalla maggioranza conformista, poichè non sono inclinabili in schemi fissi o precostituiti.
                                Il regista ha sempre rispettato ed ammirato i suoi freak, proprio perchè portatori di istanze e sensibilità fuori dal comune ed Edward Bloom di sicuro è il freak Burtoniano più vicino allo spettatore, perchè alla fine tutti noi come quest'anziano padre, abbiamo vissuto qualche situazione assurda durante la nostra vita, ma quando la raccontiamo a distanza di tempo, tendiamo a trasfigurarne la realtà facendola diventare un qualcosa di assurdo, per dare comunque un senso alla nostra esistenza di esseri umani, non si deve ridurre per il regista ad un mero sopravvivere alla massificazione della società odierna, poichè la fantasia è ciò che ci tiene vivi consentendoci di andare avanti. Il nostro cervello mente consapevolmente a sé stesso, per farci sentire meglio in sostanza.
                                Tim Burton riesce ad evitare ogni trappola ricattatoria ed ogni espediente banale da lacrima movie, grazie alla sua padronanza del mezzo filmico, scegliendo di abbandonare qualche schema vecchio, per adottarne di nuovi più originali, per mettere in scena una morte che pur essendo un avvenimento triste, nello spirito non lo è poichè diventa per assurdo un vero e proprio inno alla vita, che dona speranza a chi resta in vita, aiutandolo ad avere nuovi impulsi e nuova linfa nell'affrontare la realtà.

                                Il merito di Tim Burton è anche aver scelto Albert Finney nel ruolo del padre anziano; un attore i cui personaggi simbolo sono l'operaio Arthur Seaton ed il picaresco Tom Jones; due personaggi agli antipodi per visione della vita e dell'esistenza, che si fondono in Big Fish per dare vita ad una sintesi; Edward Bloom che racconta storie della sua vita, come se fossero delle avventure formidabili, anche per nascondere certi conflitti interiori irrisolti sino all'ultimo. L'attore britannico c'ha lasciato pochi mesi fà, quindi il finale visto ora assume connotati ancora più commoventi nella sua potenza visiva, eppure in fondo al cuore spero davvero che Albert Finney abbia lasciato la vita con una morte del genere, che solo il Tim Burton dei tempi migliori poteva mettere in scena in questo modo.
                                C'è da dire che Albert Finney e la controparte chiamata ad impersonarlo da giovane, Ewan McGregor (nel ruolo di Edward giovane) hanno una notevole somiglianza (confrontate McGregor con Finney giovane in Tom Jones o Due per la Strada; sono molto simili tra loro), cosa che contribuisce alla riuscita del film.
                                Big Fish è un film che parla della vita in un modo del tutto personale ed originale, forse il finale ha qualche richiamo di troppo ad 8 1/2 di Fellini, che ne attenua l'unicità ma non la potenza del suo significato ed il circo come luogo della diversità è abusato come iconografia, ma tolto questo credo che il film sia inattaccabile ed un piccolo capolavoro.
                                Purtroppo negli USA non ha incassato benissimo e la critica americana non s'è sprecata troppo nelle lodi, nonostante la palese qualità del film che meritava di sicuro delle nomination agli Academy Award. Purtroppo anche questa volta Albert Finney non è riuscito a conquistare l'oscar come miglior attore non protagonista; anche perchè Finney è sempre stato antipatico all'establishment dell'Academy sin dagli anni 60' e l'attore inglese naturalmente ha sempre ricambiato tale sentimento verso tale istituzione. Resta il fatto che a prescindere dai premi ricevuti o meno, Big Fish a distanza di oramai 16 anni non solo è un piccolo capolavoro, ma anche l'ultimo grande film di Tim Burton prima che il suddetto artista entrasse in un periodo di decadenza artistica (tutt'ora perdurante).
                                Ultima modifica di Sensei; 12 maggio 19, 18:53.

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