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  • Che grande regista era Germi, uno dei miei preferiti in assoluto tra gli italiani (e non solo). Per molto tempo è stato sottostimato, negli ultimi anni è stato rivalutato come merita. Limitante cmq considerarlo solo per la commedia, direi che il suo apporto è stato cruciale per sfrondare il nostro cinema dalla dicotomia neoralismo/commedia, nella sua filmografia si trovano molti elementi di cinema di genere puro, dal western al noir, dal giallo al melodramma. Billy Wilder era un suo grandissimo estimatore, a ragione.

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    • Originariamente inviato da Medeis Visualizza il messaggio
      Che grande regista era Germi, uno dei miei preferiti in assoluto tra gli italiani (e non solo). Per molto tempo è stato sottostimato, negli ultimi anni è stato rivalutato come merita. Limitante cmq considerarlo solo per la commedia, direi che il suo apporto è stato cruciale per sfrondare il nostro cinema dalla dicotomia neoralismo/commedia, nella sua filmografia si trovano molti elementi di cinema di genere puro, dal western al noir, dal giallo al melodramma. Billy Wilder era un suo grandissimo estimatore, a ragione.
      quoto totalmente!

      E giusto per completare (e chiarire meglio) quanto ho detto nei post precedenti:

      Ovviamente Germi non inventò la commedia all'italiana, fu soltanto l'autore che seppe magistralmente coagulare, in forma matura ed artisticamente compiuta, una serie di fermenti già presenti nel cinema italiano dell'epoca e lentamente sviluppatisi nel dopoguerra e nell'arco degli anni '50, tanto che molti critici cominciarono poi ad arzigogolare sull'inizio "ufficiale" della commedia all'italiana, individuandone ne "I soliti ignoti" il "vero" film di origine. Ma, per quella che è la mia idea e la mia conoscenza di quel periodo storico, sociale ed artistico, fu il capolavoro di Germi a porsi (e diventare consapevolmente) il modello e il punto di riferimento per una tipologia di commedia di costume caratterizzata da acri accenti satirici nei confronti dei vizi nazionali, e da una particolare capacità di coniugare umorismo e critica sociale, ironia ed impegno civile.

      Tra i diversi precursori (che denotarono un evidente segno della maturazione che poi caratterizzerà il genere qualche anno dopo) ci sono i film che affrontano argomenti tragici con gli strumenti della commedia, come appunto "La grande guerra" di Mario Monicelli e "Tutti a casa" di Luigi Comencini.Dopo numerose pellicole celebrative e di modesto spessore sull'argomento bellico, questi due film ebbero il coraggio di operare una rilettura critica dei massacri di poveri proletari e della profonda ingiustizia della guerra come concetto (rimuovendo molti tabù patriottardi oltre che numerose resistenze censorie).In entrambi rifulge il talento di Sordi nel conciliare comicità, riflessione e dramma ma anch'io preferisco il film di Comencini a quello di Monicelli.

      Nella forma di un grande racconto corale, questa perfetta fusione tra commedia e neorealismo, i cui toni oscillano costantemente tra il comico e il tragico, il farsesco e il malinconico, è il capolavoro assoluto della carriera di Comencini, uno straordinario ritratto di uno dei periodi storici più dolorosi e complessi del nostro paese. Sotto forma di viaggio simbolico di quattro sbandati attraverso la guerra, la crisi morale e la confusione ideologica di una nazione ormai in ginocchio, stremata dalla fame, dai lutti, dalla paura e dalle privazioni di un conflitto imposto dalla follia di pochi a danno di un popolo impreparato, generalmente pavido e poco incline alle gesta militari, questa splendida pellicola dell'autore lombardo, da lui anche scritta insieme ad Age & Scarpelli e Marcello Fondato, è essenzialmente un film sulla scelta, sulla crisi e sul caos che nel giro di pochi mesi stravolse l'Italia e gli italiani, dalla caduta di Mussolini all'avvento di Badoglio, dall'armistizio che trasformò rapidamente i nemici in amici e viceversa alle tante guerre che esplosero contemporaneamente sul nostro territorio già martoriato: quella tra alleati e tedeschi, quella civile tra fascisti e antifascisti, quella tra l'invasore nazista e gran parte della popolazione spesso inerme. Sempre lucida nella narrazione e avvincente nell'incedere degli eventi con la sua altalena tra ridicolo e poetico, umanità e cinismo, è un'opera ben più sottile di quanto potrebbe apparire ad una visione superficiale. Andrebbe obbligatoriamente mostrato ai più giovani, anche solo per scopo didattico e memoria storica, per capire che la libertà che oggi tutti diamo per scontato è figlia di lacrime, sudore e sangue che i nostri progenitori hanno dovuto versare, pagando a carissimo prezzo l'ingenua credulità.

      Voglio sottolineare che la felicità espressiva e la spinta creativa che investirono il nostro intero cinema in quel periodo, produssero non solo film eccezionali, ma aiutarono il pubblico a riflettere su aspetti della storia (ma anche della cronaca, del costume e della società in genere), senza pesantezze seriose, ma con gli strumenti ad esso più graditi della satira e del divertimento (che peraltro, nella commedia "all'italiana", non è quello precipuamente incline all'evasione delle commedie "all'americana", e questa è una differenza sostanziale tra le due).

      E infine, come ultima annotazione, voglio anche ricordare come il 1960 fu l'anno di svolta del cinema italiano (e dell'intera società) con la clamorosa affermazione del capolavoro epocale di Fellini "La dolce vita", autentico spartiacque tra due periodi storici diversissimi, quello dell'Italia del dopoguerra, della miseria e della speranza, e quello del boom economico e del raggiunto benessere. E non a caso nello stesso anno, a indicare la vitalità, la maturità e la ricchezza del nostro cinema di quell'epoca irripetibile, uscirono (al di là delle commedie) numerosi altri grandi film d'autore come "Rocco e i suoi fratelli" di Visconti, "L'avventura" di Antonioni, "La ciociara" di De Sica, "Adua e le compagne" di Pietrangeli, "Kapò" di Pontecorvo, "Il bell'Antonio" di Bolognini, "Lettere di una novizia" di Lattuada, "La lunga notte del '43" di Vancini, il "Tutti a casa" già citato, ma anche "La maschera del demonio" di Bava (confermando la propensione per i "generi" del nostro cinema, manifestatasi a partire dal 1958 con il Peplum e poi esplosa con risultati clamorosi per tutti gli anni '60 e '70).
      "E' buffo come i colori del vero mondo diventano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo"


      Votazione Registi: link

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      • Che bel post questo poco sopra, anche se viene il rammarico a ripensare a un anno fecondo dal punto di vista artistico come il 1960, con tutti quei grandi film usciti nel giro di un anno, in confronto ad oggi.
        Ma bando alla nostalgia: molto interessante e giusta la notazione sul fatto che in quegli anni si iniziò anche grazie al cinema a ripensare criticamente il nostro passato nazionale, specialmente quello che era accaduto vent'anni prima in quell'immane tragedia. Ovviamente mi mangio le mani visto che colpevolmente Tutti a casa non l'ho ancora visto, mannaggia a me!

        Comunque Gidan, capisco forse questa sensazione di costruito per La grande guerra, perché è notevole come Monicelli, Vincenzoni ed Age&Scarpelli siano riusciti a inserire gran parte di ciò che caratterizza il primo conflitto mondiale dal punto di vista italiano, c'è proprio tutto (la partenza, le esperienze dei soldati al fronte, il fronte interno, ecc.), quasi fosse uscita un'opera didattica!
        E, da appassionato pure di storia, ho apprezzato molto trovare appunto nel film tante cose di cui la storiografia non s'era ancora resa conto o aveva riflettuto (e ci sarebbero voluti ancora una decina d'anni, penso).

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        • È da tempo che non recensisco un film, forse l'ultima volta è stata con Roma di Cuaron, ma l'altro giorno ho visto un bel film è mi è venuta voglia di parlarne, anche perché credo sia passato un pò in sordina...
          (mi scuso per il commento over-size)

          Tramonto di L.Nemes

          Screenshot_2019-05-28-01-31-43-1.png

          L’ultimo film di Laszlo Nemes è ambientato negli anni ’10 alla vigilia della Prima Guerra Mondiale nell’Europa dell’Est, la trama, in breve, vede protagonista Irisz, una giovane ragazza che torna nella sua città natale a Budapest per lavorare come modista nella cappelleria proprietà un tempo dei suoi genitori, defunti in un tremendo incendio del negozio stesso. Sul posto Irisz dovrà scontrarsi con un oscuro presente e con i demoni di un passato irrisolto ma soprattutto mettersi sulle tracce di suo fratello dato per scomparso.

          Oggi il cinema storico politico si trova di fronte a due strade possibili: o tradurre sullo schermo quanto scritto su documenti e libri storici con un taglio che diremo quasi accademico, o invece (re)interpretare i processi storici come spazi narrativi, in certi casi spiccatamente allegorici, messinscene di una forza oscura e ingovernabile che spesso si fa monito di un divenire profetico.
          Nemes con il suo Tramonto sceglie questa seconda via, nel suo 1913 c’è un mondo spaccato in due: da un lato il potere dell’aristocrazia chiusa tra le mura dei suoi lussuosi palazzi dove sfarzosi abiti e cappelli sembrano celare azioni ben più losche; dall’altro i quartieri periferici malfamati dove ribollono moti rivoluzionari pronti a dare uno scossone allo status quo. La cappelleria di famiglia di Irisz Leiter non è altro che il simbolo di quel primo schieramento, emblema della sua bellezza apparente tanto quanto lo è della sua morale decadente , ma oltre questo la cappelleria Leiter è anche il centro nevralgico che attira a se le due fazioni divenendo la perfetta arena di uno scontro inevitabile.
          Questo è quanto accade sullo sfondo, è l’ambiente in cui si muove Irisz, la nostra eroina, al centro di tutto ancora il tema della ricerca (come ne “Il figlio si Saul”), la ricerca della sua famiglia, suo fratello scomparso presunto responsabile di un crimine, e delle sue radici, radici che come un cancro si sono espanse in entrambe le direzioni, una bidirezionalità che va verso l’alto e verso il basso di quel tessuto sociale in conflitto.
          La bidirezionalità la ricollegherei al tema del doppio che il film sembra richiamare più di una volta al suo interno: c'è questo momento bellissimo in cui improvvisamente con una scelta di montaggio ben precisa, un campo-controcampo, un viso riflesso su di uno specchio, la protagonista si sdoppia nella medesima stanza, appare da quel momento chiaro la duplice natura del personaggio di Irisz, racchiusa in un ambivalenza sgomitante, da un lato una protagonista attiva che agisce (devo ritrovare mio fratello), la sua presenza sembra mettere in moto gli eventi, Irisz è un’ energia che viene dal passato con l’intento di prendere per i capelli il presente e tirarlo prepotentemente accelerando i tempi verso un futuro incombente; dall’altro però anche una protagonista passiva, le cui azioni sembrano più delle reazioni all’ambiente esterno che la rimbalza da un contesto all’altro senza fornire risposte troppo esaustive. Appurata questa condizione di passività il regista pone lo spettatore di fronte al primo vero cortocircuito del film, a balenare improvvisamente è l’impressione che forse la trama principale sia nella realtà dei fatti solo un mero pretesto, forse il personaggio di Irisz e la sua vicenda di ricerca non sono i veri protagonisti del film, ma bensì quello sfondo sfuocato e fagocitante in cui lei brancola, forse è proprio quell’ambiente socio politico pronto ad implodere di cui si parlava prima ad essere il primo attore sulla scena, e quindi allo stesso tempo è l’umanità tutta al cospetto del caos della storia ad essere la vera protagonista.
          Irisz non va però sottostimata a fronte di questa presa di coscienza, lei è comunque un elemento fondamentale nel disegno globale: è l’ago della bilancia e il tramite (inconsapevole) dei due mondi in opposizione (popolo e aristocrazia), ma non di meno, lei è il tramite tra noi spettatori/uomini e quella forza trascendentale e inafferrabile che è il caos storico, di cui è costante osservatrice. Irisz siamo noi oggi, Irisz è il cittadino del terzo millennio che vive in balia degli eventi, si lascia trasportare da essi senza troppa resistenza, con perenne stupore rassegnato, in attesa di un prossimo cambiamento inevitabile che potrebbe avere conseguenze drammaticamente irreversibili.
          Nemes con Tramonto inscena tutto questo, il tramonto appunto di un epoca, l’ancien régime dell’Impero austro-ungarico, che va di paripasso con il crollo di ogni nostra certezza al cospetto della storia, la barca dell’utopia che annega con le sue belle speranze in un mare nero di confusione e imprevedibilità.
          La regia è quanto di più funzionale si possa credere nell’assecondare tali meccanismi, servendosi di una sceneggiatura ricamata come un mystery atipico, più imparentato con i labirinti senza uscita e privi di soluzione Kafkiani che con le tipiche strutture di indagine della letteratura gialla, trova perfetta espressione nel linguaggio audiovisivo attraverso la semi-soggettiva, con primi e primissimi piani sul volto di una magnetica Juli Jakab (bellissima, la versione ungherese di Cara Delevingne), piani sequenza e long take.
          La semi-soggettiva è propedeutica al fatto che Irisz è totale osservatrice del dipanarsi della Storia, è il nostro occhio su quel mondo, la camera è sempre a fuoco sul suo viso e il suo corpo mentre sfuoca l’ambiente circostante, Irisz incontra persone dai contorni indistinti, più delle ombre o presenze oniriche che persone vere e proprie, ma la camera fa di più, sfuma intere scenografie in cui Irisz si aggira stordita, deforma la realtà e tratta tutti gli elementi di contorno sacrificandoli in termini ottici al pari di percezioni allucinatorie. A fronte di questa deflagrazione visiva, il lavoro compiuto sul fuori fuoco in secondo luogo alimenta una tensione narrativa che diventa sempre più sinuosa e ansiogena. Queste scelte stilistiche sono pienamente motivate dal fatto che la regia oltre voler assumere interamente il punto di vista della sua protagonista ci tiene a sottolineare ed esplicitare concretamente tutto il discorso mosso precedentemente intorno alla “confusione” propria di quel demiurgo chiamato Storia, il gran detentore del caos politico e sociale.
          In questo, non meno del comparto visivo, ad essere perfettamente funzionale è il lavoro svolto sul suono, un fuoricampo vivo brulicante di voci, rumori, persone, movimenti e dove grida e spari designano improvvise esplosioni di violenza a sottendere un annichilimento incombente.
          Nei fatti l’incedere del film si traduce dunque in un continuo e asfissiante pedinamento ad altezza d’uomo camera a mano totalmente centrato sulla sua protagonista posta all’interno di una dimensione disorientante, l’mdp non si stacca mai da lei, sta appollaiata sulla sua spalla ad ogni suo spostamento, dipende da lei, non esistono campi lunghi, panormaiche, la regia è inerme e incapace di raccontare la storia senza la sua protagonista, emblematica una scena in cui la camera è posta in prossimità di una fermata pubblica, l’inquadratura è immobile, fissa, e rimane tale fino al momento in cui non arriva un treno e Irisz fa nuovamente il suo ingresso scena, solo allora la macchina da presa abbandona finalmente la sua staticità e si rimette in marcia al passo di lei.
          La geografia della città è totalmente reinventata come fossimo in una bunueliana dimensione onirica, dove Budapest è grande quanto un paese di provincia e dove, nonostante l’ingombrante presenza ravvicinata della protagonista al centro dell’immagine e il fuori fuoco sull’ambiente circostante, il lavoro compiuto sulla dimensione spaziale, la geometria dei luoghi e l’orientamento interno ad essi è encomiabile; riusciamo sempre a creare nella nostra testa una mappa concettuale degli interni e degli esterni, sappiamo in quale direzione si sta spostando Irisz e anche in questo sta tutta la bravura del suo regista.
          Tramonto come si diceva è un film in cui vivono tanti doppi: c'è una doppia società che si scontra, una doppia protagonista che è sia chiave di volta che osservatrice, attiva e passiva, una protagonista che è anche un nostro doppio, sono poi presenti due racconti che vivono insieme, uno estrinseco e un altro intrinseco, è esperienza sensoriale e cinema narrativo, e come se non bastasse doppio può essere l’approccio dello spettatore nella fruizione dell’opera. Tramonto è infatti un film sbalorditivamente dinamico e lo si puo’ guardare una prima volta a mente rilassata seguendone il fascino del dramma investigativo ricamato in superficie, perdendosi negli intrighi e nei labirinti di un’epoca assieme alla sua protagonista; per poi infine riassaporarlo con una seconda visione e un diverso sguardo nel tentativo invece di decifrarne i contenuti celati tra le trame di un impianto narrativo tanto stratificato concettualmente quanto formalmente, un impianto narrativo che in realtà è più un efficace pretesto atto ad imbastire un discorso ben più ampio veicolato attraverso un meccanismo allegorico lucidissimo e premonitore/ammonitore.
          Il genere mistery è solo un cappello posto su di un capo che nasconde il vero volto di una terribile deflagrazione storica e quindi umana.
          Bellissima la chiusa che omaggia Orizzonti di Gloria di Kubrick.
          Capolavoro ? Poco ci manca.

          Voto: 9.5


          Ps. Credo proporrò il regista nella prossime votazioni dei registi nell'apposito topic, mi piacerebbe sondare l'indice di gradimento dell'opera in questi lidi.
          Ultima modifica di MrCarrey; 06 giugno 19, 00:00.

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          • Visto anch'io Tramonto.
            Promette tantissimo e continua a seminare per più di metà film, ma poi ho avuto la sensazione che non mantenesse fino in fondo, ma forse ero solo io che iniziavo ad essere un po' troppo stanco. Ciò nonostante ne sono rimasto affascinato per tutta la sua lunga durata.
            Lo stile registico è lo stesso de Il figlio di Saul, così come la ragione profonda del racconto: un'ossessione per dare un senso alla propria vita quando si ha perso tutto.

            Non capisco perché la critica gli sia parzialmente andata contro, così come trovo piuttosto grave che i giurati dell'ultima Mostra di Venezia non l'abbiano degnato di un riconoscimento. Ancora più scandaloso che non abbia avuto una distribuzione degna di questo nome (è uscito solo come evento in una manciata di sale esclusivamente in giorni feriali).
            Ultima modifica di aldo.raine89; 05 giugno 19, 22:59.

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            • Il Sorpasso di Dino Risi (1962).

              Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant) è un tipico studente universitario di origine borghese, che studia giurisprudenza cercando di raggiungere l'agognata laurea e di programmare così un giorno il suo futuro. E' un ragazzo timido ed un pò impacciato, uno sfigato secondo i canoni della generazione odierna, eppure a fine film ci si rende conto come questo ragazzo rappresentasse una certa Italia che non s'era scordata i sacrifici della precedente generazione e puntasse ad impegnarsi per ottenere un progresso personale e sociale, da mettere poi al servizio del paese.
              Nel Sorpasso di Dino Risi (1962) l'Italia del boom economico è pienamente rappresentata da Bruno Cortona (Vittorio Gassman), un signore molto più grande di Roberto, che vive la vita a 130 km/h sfrecciando con la sua Lancia Aurelia B24 dal clacson truccato e da qualche modifica illegale, enfatizzata nel suo dinamismo dalla macchianda presa montata sull'automobile da parte di Risi in modo da costruire dei lunghi quanto articolati piani sequenza che mettono in scena l'evoluzione di un intero paese. Bruno è la rappresentazione di un paese che in pieno benessere economico corre all'impazzata nel godersi ogni beneficio senza fare nulla per dare concretezza al nostro miracolo economico ed infatti oggi se ne vedono le conseguenze; un paese che poteva investire quando stava in piena espansione ha preferito sfruttare tutte le risorse per soddisfare il proprio edonismo personale, quando si potevano impiegare parte di esse per altri progetti ed infatti oggi che siamo in crisi, ne paghiamo tutti lo scotto (sopratutto le giovani generazioni).

              Non che Bruno Cortona sia da condannare, è giusto godersi la vita anche da adulti e sviluppare la propria persona, solo che lui rappresenta appieno il tipico cafone Italiano arricchito, che raggiunto il suo sogno di benessere, pensa solo a sfrecciare pericolosamente tutto il giorno in auto (uno status symbol), arrivando a coinvolgere il giovane Roberto in una due giorni di follie. Dietro tale benessere e spensieratezza, appena si devia dalla strada principale, assistiamo ad un paese più oscuro con il suo lato più retrograda ed ipocrita, specie tramite la doppia visita speculare prima ai parenti di Roberto (che assisterà alla demolizione di alcune belle convinzioni dell'infanzia) e poi alla ex-moglie di Bruno e sua figlia (Catherine Spaak) di soli diciassette anni, che frequenta un uomo molto più grande di lei.
              L'Italia nonostante corra a folle velocità e con lei i suoi abitanti, resta un paese colmo di contraddizioni; tutti possono permettersi un automobile e una giornata di svago al mare, ma alla fine indagando più a fondo si ha il ritratto di un paese ancora ancorato a tradizioni antiquate e composto da figure ipocrite ed irresponsabili che non hanno fatto che mangiare tutto come cavallette e sistemare sè stesse, per poi lasciare dietro di sè il nulla.

              Roberto poco a poco nonostante pensi che Bruno sia un totale incosciente (peccato affidarsi a dei ridondanti pensieri in voice over abbastanza banalotti quando s'era capito benissimo il contrasto tra pensiero e azioni da parte di Roberto), alla fine passivamente decide di seguirlo sino a lasciarsi plagiare dal suo modo di vivere la vita e dichiarare che questi due giorni con lui, sono la cosa più bella che abbia mai fatto.
              L'introversione di Roberto si contrappone alla cafonaggine sfacciata ed esibita di Bruno, interpretato da un Vittorio Gassman al suo meglio, che riesce a fondere carpe diem ed edonismo sfrontato nel suo perosnaggio, arrivando ad attrarre uno spettatore che come Roberto a poco a poco si avvicinerà sempre più al suo modo di intendere la vita.
              Tra un sorpasso in curva e l'altro, si arriverà ad un finale emblematico, che simboleggia la fine di una certa Italia a favore di un'altra nascente, che al bivio decisivo riesce a sopravvivere e condizionerà per sempre lo sviluppo economico e sociale di questo paese sino ad oggi. La commedia all'Italiana diventa il genere cardine a livello di incassi della nostra produzione e alcuni registi sfruttano essa come strumento di analisi sociale e strumento di satira di costume su un paese che nel giro di pochi anni muterà notevolmente.

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              • Originariamente inviato da aldo.raine89 Visualizza il messaggio
                Visto anch'io Tramonto.
                Promette tantissimo e continua a seminare per più di metà film, ma poi ho avuto la sensazione che non mantenesse fino in fondo, ma forse ero solo io che iniziavo ad essere un po' troppo stanco. Ciò nonostante ne sono rimasto affascinato per tutta la sua lunga durata.
                Lo stile registico è lo stesso de Il figlio di Saul, così come la ragione profonda del racconto: un'ossessione per dare un senso alla propria vita quando si ha perso tutto.

                Non capisco perché la critica gli sia parzialmente andata contro, così come trovo piuttosto grave che i giurati dell'ultima Mostra di Venezia non l'abbiano degnato di un riconoscimento. Ancora più scandaloso che non abbia avuto una distribuzione degna di questo nome (è uscito solo come evento in una manciata di sale esclusivamente in giorni feriali).
                Quest' anno a Venezia si sono messi in testa di premiare solo film in lingua inglese e/o cotti e mangiati per l' Oscar come quello di Cuaron, looool.

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                • Lo Scopone Scientifico di Luigi Comencini (1972).

                  Peppino (Alberto Sordi) e Antonia (Silvana Mangano), sono due romanacci D.O.C., che vivono alla giornata con i loro cinque figli in mezzo ad una borgata degradata ed in una casa che a chiamarla tale è un complimento, visto che è una mezza baracca fatiscente. La loro illusione di riscatto risiede in una partita a scopone scientifico con una vecchia miliardaria americana (Bette Davis), che ogni anno per qualche tempo soggiorna a Roma per affari ed ha la passione per il gioco delle carte; lo scopone scientifico, con cui si diletta e mette in palio una cifra di un milione di dollari a partita che puntualmente ritona a fine partita nelle mani della signora da oramai otto anni. Abbiamo un'eterna lotta tra un sottoproletariato ingenuo e manipolabile ed i capitalisti bastardi rappresentati dalla vecchia miliardaria, la quale sembra offre ogni anno da ben 8 anni una possibilità di riscatto per questi due borgatari, ma ogni volta finisce con il vincere lei mandando in fumo le speranze di tutta la borgata, che puntualmente fantastica sulle potenziali vincite di Antonia e Peppino, sperando di poter attingere anche loro qualcosa (anche perchè i due protagonisti hanno molti debiti).

                  Il gioco d'azzardo è un circolo vizioso, il capitalista sembra offrire alla classe subalterna una possibilità di vittoria in modo "democratico", ma in realtà avendo già anticipato tutte le mosse altrui, con una mano sembra dare qualcosa e con l'altra alla fine ti toglie tutto. I frequenti zoom della machcina da presa sulle carte d'altronde sottolineano il carattere dominante di esse sulla psiche dei borgatari, che si illudono di poter cambiare in questo modo la loro situazione.
                  E' un gioco perverso e assurdo a cui però Antonia e Peppino, nonchè tutti i componenti della borgata, consapevolmente ne sono vittima da oramai otto anni, come lo stesso professore riconosce. Eliminare la vecchia e fregarle i soldi, sarebbe la via più veloce e anche quella naturale dato l'antagonismo tra queste classi sociali, però stranamente le classi sociali inferiori chissà perchè non adottano mai questa strada e preferiscono sfidare la classe dominante in un gioco d'azzardo dove alla fine sembra che non abbia nulla da perdere, ed invece a termine della partita a carte si accorgono di aver smarrito una cosa fondamentale; la speranza.
                  Bette Davis è un chiaro personaggio metafisico; rappresenta l'invicibilità del potere capitalista che in ogni angolo del globo riafferma la sua superiorità tramite una "democratica" partita a carte, dove puntualmente la classe inferiore perde; il tutto avviene dietro il dispiacere compassionevole della vecchia miliardaria, ma il suo sentimento è di pura ipocrisia e capace di mutare rapidamente appena qualche partita le va storta e rischia di perdere una somma di denaro anche minima dato il suo enorme patrimonio.

                  La vita d'altronde è una fregatura; la vecchia ha infinite possibilità dato il suo patrimonio, mentre gli ingenui Antonia e Peppino invece al gioca al raddoppio ne hanno una sola e basta un solo sbaglio da parte loro, per perdere quanto faticosamente guadagnato al tavolo da gioco. La seconda possibilità tipicamente americana quindi è solo un'eterna illusione che gioca a vantaggio dell'anziana miliardaria, visto che alla fine sfrutta tale concezione, per riaffermare la sua invincibilità e il dominio imperialista americano sul mondo.
                  Chi sembra aver capito il gioco della vita è la piccola Cleopatra, una delle figlie della coppia protagonista, la quale ritorna alla missione originaria propria del proletariato; l'antagonismo duro e puro tra classi sociali in un finale cinico, ma che sa di forte lieto fine perchè si è finalmente liberi dall'alienazione cagionata da questa partita infinita a carte.
                  Ottimo esempio di commedia che sfrutta il genere per porre in essere un'allegoria sul mondo e come esso vada avanti, Lo Scopone Scientifico di Luigi Comencini (1972), si avvale di due divi del nostro star system e di altri due divi di un'altra epoca; Joseph Cotten e della stronza number one Bette Davis, che recita anche con un solo aguardo, mettendosi in gioco in un film di lingua italiana dove ebbe non pochi contrasti con Alberto Sordi (lo doiava a morte per il suo modo di fare; nel film questa acredine aiuta dato il suo personaggio). Una favola sul conflitto da classi e il necessario recupero della rabbia da parte delle classi sociali più basse per distruggere definitivamente questo bieco e sporco sistema capitalista made in USA.

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                  • Originariamente inviato da Sensei Visualizza il messaggio
                    Lo Scopone Scientifico di Luigi Comencini (1972).
                    Appassionante e feroce apologo anticapitalista in forma di affilata satira di costume sul binomio denaro-potere, nel quale Sordi e la Mangano (entrambi bravissimi) vengono sistematicamente sconfitti da una coppia di ricchi americani in un derisorio (e ovviamente allegorico) gioco a carte. La metafora è chiara e, purtroppo, di amara ovvietà: il banco vince sempre; ovvero nella lotta di classe i ricchi hanno, inevitabilmente, il coltello dalla parte del manico rispetto ai poveri. La linea di confine tra buoni e cattivi appare ambiguamente sfumata e non coincide con la divisione sociale ma, piuttosto, con il ruolo che la vita ha riservato ai contendenti, dall'una o dall'altra parte della "barricata". Molti vi hanno anche voluto leggere un simbolismo graffiante nei confronti dell'imperialismo americano. E' una divertente commedia dai toni acri sul conflitto di classe, un po' condizionata dall'impostazione ideologica "a tesi", che la rende (specialmente nel finale) satura di veleni e, quindi, poco equanime. E' imperdibile per la bravura del cast (con la leggendaria Bette Davis sugli scudi quanto il mattatore Sordi) e per alcune sequenze memorabili ma io non lo colloco nel "gotha" delle commedie all'italiana.


                    "E' buffo come i colori del vero mondo diventano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo"


                    Votazione Registi: link

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                    • Il film è una critica dell'imperialismo americano, Bette Davis gioca a carte in ogni paese del mondo e sempre e soltanto contro dei poveracci per riaffermare la potenza del capitalismo sulle classi subalterne.

                      Un ottimo film, poi che sia meglio o peggio di altre commedie dell'epoca mi importa poco. È a tesi, ma finalmente c'è rabbia e cattiveria, intrattiene pure perché Sordi fa ridere di brutto.

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                      • Lo scopone scientifico è un grande film. Due ore che passano in un minuto. Non un capolavoro, ma quasi. All'epoca il livello delle nostre commedie era altissimo.
                        https://www.amazon.it/dp/B08P3JTVJC/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&dchild=1&keywords=mau rizio+nichetti+libri&qid=1606644608&sr=8-1 Il mio saggio sul cinema di Maurizio Nichetti.

                        "Un Cinema che non pretende, semplicemente è" cit. Roy.E.Disney

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                        • Heat di Mann

                          Esordisco con il link a questo ottimo articolo http://www.i400calci.com/2016/06/le-...la-sfida-1995/ . Faccio qualche considerazione senza pretese di esaustività.

                          E' un film in cui il contenuto è veicolato più dalla forma che dall'intreccio ed in questo mi ha ricordato il recente Mad Max Fury Road. Pare un accostamento strambo ma più ci penso più trovo somiglianze anche tematiche, tant'è che la chiusura di Fury Road "where must we go, we who wander in this wasteland, in search of our better selves?" calzerebbe benissimo anche come chiusura di Heat.
                          Dicevo, la forma che si fa contenuto. La rappresentazione di Los Angeles è inquietante nel suo essere spersonalizzata. Ogni elemento, dal gangster-informatore ai ristoranti, è privo di personalità, risalta nel suo essere privo di tratti distintivi. L'unico particolarità sta nell'uso abbondante del bianco e di colori spenti, smussati, che la fanno sembrare un limbo infernale. Penso ad esempio ai corridoi dell'hotel in cui avanza a grandi falcate il detective Hanna, ai quartieri generali della polizia, agli appartamenti dei protagonisti, alle maschere da hockey. Nel film a sottolineare ulteriormente la desolazione è l'uso di ampi spazi vuoti (il cantiere, la pista per aerei nel mesto finale).

                          Passiamo alle scene d'azione. Nonostante quasi 3 ore in questo poliziesco le scene d'azione a ben guardare sono solo due ma bastano e lasciano il segno. Sono incrediili perché senza concessioni alla spettacolarizzazione o alla stilizzazione che ti fanno dire "ok violento ma è solo un film", feriscono gli occhi perché sono iperreali, documentaristiche.
                          La stilizzazione della messa in scena invece è concentrata nelle scene più introspettive, volte a trasmettere l'interiorità dei personaggi smarriti...trasmette più la fotografia che i (pure brillanti) dialoghi. Un equilibrio miracoloso fra realismo e lirismo.

                          Passando all'intreccio, mi ha colpito come nel viaggio dei protagonisti e dei comprimari tutti coloro che hanno provato a fare il colpo per lasciarsi alle spalle Los Angeles e cambiare vita finiscono male (chi muore, chi non può più vedere moglie e figlio). L'unico che ne esce bene è il detective protagonista, rassegnato alla propria condizione: la riconciliazione finale con la moglie è tutt'altro che risolutiva, ammette "I am what I'm going after" e non è disposto a cambiare, e la causa della riconciliazione è il tentato suicidio della figliastra. Un protagonista che pare divertirsi ed essere felice solo quando da la caccia a criminali o li mette sotto torchio. C'è proprio una rappresentazione di LA come un inferno il cui unico modo per scappare è morire.
                          Ultima modifica di Cooper96; 06 giugno 19, 22:56.
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                          • Originariamente inviato da Gidan 89 Visualizza il messaggio
                            Lo scopone scientifico è un grande film. Due ore che passano in un minuto. Non un capolavoro, ma quasi. All'epoca il livello delle nostre commedie era altissimo.
                            all'epoca mi piacque ma non lo apprezzai appieno...diciamo che sfigura rispetto al ben più incisivo Brutti Sporchi e Cattivi
                            Qual'è la verità? Ciò che penso io di me, ciò che pensa la gente, o ciò che pensa il burattinaio?
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                            • Tra i film spazzatura ed i capolavori, c'è uno spazio intermedio molto vasto. Lo Scopone Scientifico di Comencini si colloca in questo spazio essendo (per me) un ottimo film. Internet purtroppo polarizza i giudizi in maniera iper estrema, o tutto bellissimo o schifezza, la classe intermedia è scomparsa del tutto.
                              Non sarà capolavoro (e l'ho detto), ma sinceramente chissenefrega. E' un film che fa ridere e riflettere al tempo stesso, ed è girato bene anche.


                              Sabato Sera, Domenica Mattina di Karel Reisz (1960).

                              Arthur Seaton (Albert Finney) e Bert, passeggiano per le strade buie di Nottigham in uno dei suoi sabati sera fatti di alcool e pub, quando dietro di lui un uomo con un mattone spacca una vetrina; nel gesto di quest'anonimo signore c'è una latente insofferenza sociale pronta ad esplodere in un gesto improvviso e violento, che rompe la monotonia della serata. Una folla di passanti subito accorsa blocca l'anziano signore e chiama la polizia, mentre Arthur e Bert prendono le parti dell'uomo cercando di farlo scappare via, schierandosi contro la gente.
                              Di questa tensione vive Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz (1960); una pellicola che vive di contrasti forti ed accesi tra poli opposti; operai-padroni, genitori-figli, anticonformismo-conformismo e giovani-anziani, fornendo così un ritratto lucido e caustico della società inglese che il cinema dell'epoca si ostinava a non raccontare, prediligendo invece storie tratte da opere narrative letterarie che non avevano attinenza con la realtà sociale dell'epoca.

                              Durante la settimana Arthur Seaton sgobba tutto il tempo in una fabbrica di componenti per le biciclette, sfornando un migliaio di pezzi intorno ad un tornio, con un ritmo logorante e costante, ma senza sforzarsi troppo, poichè a differenza di altri lavoratori ha capito subito che se si sforzazze di più, per lui non ne verrebbe nulla di più in tasca e quindi tanto vale limitarsi a produrre il quantitativo di pezzi necessario per poi pensare alla cosa più importante; il divertimento.
                              Per il giovane immerso in un lavoro alienante ed usurante, affronta la vita con una forte ironia all'insegna di un umorismo caustico che conferisce una certa originalità narrativa a questo film sulla working class britannica, il quale risulta lontano dei toni dai drammi inglesi degli anni 80' sul tema, seppur questo non gli faccia perdere nulla della propria potenza cinematografica.
                              Tra un lavoro ingrato e dei genitori rincoglioniti dalla società dei consumi, poichè passano tutto il tempo a casa vicino la TV; per Arthur il divertimento consiste in bevute in gare di birra ad un pub e una tresca clandestina con Brenda (Raechel Roberts), donna sposata con un collega di lavoro di Arthur.
                              Il ragazzo vive l'esistenza con un certo grado di umorismo, godendosi il più possibile il divertimento del sabato sera, per poi constatare come la domenica mattina sia già distrutto e depresso, poichè pensa al giorno dopo al logorante lavoro in fabbrica. Arthur è un ribelle con una certa gioia di vivere, ma senza alcuna ideologia forte di base se non trarre il massimo profitto dalla noia quotidiana per sè stesso. Egli dichiara di votare per i "rossi" (i comunisti), ma non per coscienza di classe, ma solo per liberarsi del suo caporeparto che gli mette i bastoni tra le ruote, poichè lo accusa (a ragione), dei suoi scherzi infantili ed idioti nei confronti dei suoi colleghi, fatti allo scopo esclusivo di ammazzare la noia. In effetti Arthur è insofferente alle regole, poichè da attento osservatore della realtà ha capito come essa sia monotona, uguale a sè stessa e triste, così cerca di spassarsela il più al lungo possibile e questo ad alcuni vicini come una signora grassona non và giù; tanto che Arthur ad un certo punto dopo vari screzi con "la balena" (una signora grassa molto antipatica e pettegola), decide di nascosto di caricare un fucile a pallini e spararle dei proiettili nel sedere; giusto per abbattere il grigiore della domenica mattina. Un gesto divertente con un tipico umorismo caustico inglese, che rende bene l'infantilismo del protagonista.

                              A questa esistenza trasandata, sembra voler mettere fine Doreen (Shirle Anne Field), giovane ragazza che aspira a sposarsi e che se la intende con Arthur, il quale però non sembra molto convinto del matrimonio con la giovane, seppur sia più vicina alla sua età rispetto a Brenda ed inoltre è anche single.
                              La ribellione di Arthur Seaton sembra essere destinata alla sconfitta anche per banale presa di coscienza del suo protagonsita, poichè ovunque và, vede un paesaggio sempre uguale a sè stesso (i campi lunghi sui tetti ed i camini delle case di Nottingham tutti uguali e deprimenti nel grigiore del fumo della città) che minaccia sempre più le aree verdi, per inglobare a poco a poco anche il piccolo fiumiciattolo dove il giovane si ritira a pescare di domenica mattina.
                              Albert Finney all'epoca venne paragonato ai vari Marlon Brando, James Dean o Paul Newman, per la sua carica ribelle nella recitazione e per il suo sex appeal derivante dal suo bell'aspetto; non è un accostamento corretto poichè l'attore è si un elemento di forte rottura nell'impostazione recitativa, ma non cerca mai una posa divistica, nè vuole far strabordare la sua personalità dal personaggio che interpreta; in sostanza resta inglese sino alla fine. L'attore sà bene quando azzerare il suo fascino per immergersi appieno nella monotonia lavorativa del suo personaggio, riuscendo a conferire ad esso una naturale gioia di vivere che sà tanto di presa di coscienza amara che è impossibile sconfiggere tale sistema. Arthur potrà anche continuare a lanciare sassi contro le case come dice, ma il regista ne dubita fortemente, tanto che alla fine inquadra un campo lungo dove Finney si avvia verso tali case, pronto ad omologarsi volente o nolente al grigiore della vita, che metterà fine a tutte le sue illusioni e sogni di libertà. Il personaggio è lontano anche da quelli del cinema americano anni 70', poichè sà benissimo che andare allo scontro frontale con il sistema, lo porterà solo alla sconfitta totale, quindi tanto vale farne parte per poi cercare di spassarsela in qualche modo.
                              Grosso successo di pubblico e critica all'epoca, con varie nominatio ai BAFTA, contribuì a lanciare Albert Finney come attore di punta del Free cinema inglese, che vinse anche il NBR come miglior attore; senza però una nomination agli oscar che avrebbe di certo meritato, ma non gradito per la sua rispettabile avversione verso i premi "borghesi" che uccidono l'attore (niente uccide più della fama e del culto della perosnalità secondo Albert Finney). Oggi è un film purtroppo dimenticato, nonostante Mereghetti gli dia 3.5 stelle (ne meriterebbe 4) e che andrebbe riscoperto senz'altro.


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                              • Rocky
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                                Per citare Leo Ortolani, "Rocky è la storia di un pugile che si allena anima e corpo per dimostrare a se stesso che non è un perdente. E alla fine perde.". E per quanto possa sembrare ridicolo Rocky, con la bocca storta che urla "Adriana" come fosse un bambino, alla fine il succo del film è proprio li. Rocky è un bambinone, privo di affetti....probabilmente un ragazzino occhialuto e magro che è finito in una palestra per smettere di prenderle ma che è sempre stato troppo buono per riuscire a darle fuori da un ring. E la cui vittoria maggiore sta nel riuscire a far uscire Adriana nel guscio in cui questa si era rinchiusa a furia di venire "bullizzata" da chi le era attorno.
                                Qual'è la verità? Ciò che penso io di me, ciò che pensa la gente, o ciò che pensa il burattinaio?
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