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  • Io l'ho trovato (EMMA; dico) semplicemente delizioso, e scusate se uso anch'io questo agettivo un po' fru-fru ma tant'è, si addice al caso.

    Al di là della piacevolezza del film, mi sono definitivamente innamorato di A.Taylor-Joy.
    Ho scoperto (youtube) che è di origine argentina, e che trattasi di ragazza davvero sensibile, brillante e piena di passione per il suo mestiere. Mi piace moltissimissimo e le sto inviando influssi benefici via etere, spero li riceva.
    Con materiale diverso rispetto al genere horror-thriller-noir (consiglio vivamente THOROUGHBREDS, di un regsta esordiente) se la cava benissimo: l'accento inglese è impeccabile, il suo senso del ritmo perfetto, le sue faccine amabili. Con quei due occhioni sdrucciolevoli, bizzarramente distanziati e facili alla lacrima sarebbe ideale per un melodarmmone di quelli veri, o magari per un film di D.Lynch. Tra l'altro, già che ci sono, auspico che tale modello evolutivo (l'occhione leggermente distanziato, dico) si imponga nel giro di qualche generazione, non mi dispiacerebbe. Madre Natura batti un colpo.
    Ultima modifica di papermoon; 12 giugno 20, 20:40.

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    • Originariamente inviato da papermoon Visualizza il messaggio
      Io l'ho trovato (EMMA; dico) semplicemente delizioso, e scusate se uso questo agettivo un po' fru-fru ma tant'è, si addice al caso.
      Ma io concordo eh! Anch'io se dovessi trovare un aggettivo definirei il film "delizioso". Ha dalla sua veramente un ritmo, e quindi un montaggio, da manuale e la capacità della regista di sapere dosare molto bene commedia, sentimentalismo e degli sprazzi di manifestazione di cruda realtà.

      Concordo poi sul cast e in particolare su Taylor-Joy, bellissima e bravissima.

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      • Il film non l'ho visto ma condivido gli apprezzamenti per la Taylor-Joy. Cmq quel tipo di volto "asimmetrico" era venusta peculiarità di Barbara Steele, e infatti destino ha voluto che nei ruoli horror/psicotici abbia trovato anche lei fertile terreno di identificazione...

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        • Sarò stato in giornata no, ma dopo la prima mezz'ora ho passato altro per la noia. Ed io normalmente non sopporto interrompere un film, anche se piuttosto orrendi.
          "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione...E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser...E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia... E' tempo di morire"

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          • Serpico di Sydney Lumet

            Bello, nulla di sconvolgente ma bello. Il soggetto tratta di un poliziotto onesto che cerca di far emergere la corruzione dilagante nel corpo di polizia di New York. Scrittura abile a tenere un passo incalzante ed agile nonostante la vicenda si svolga nell'arco di molti anni, e si percepisce il gran lavoro di documentazione dietro al film. La regia tiene un basso profilo.
            E poi c'è Al Pacino che ci crede duro, modifica più volte look, movenze, e regge il film sulle sue spalle.

            In generale, vuoi per lo spirito anticonformista di Serpico, vuoi per la storia e l'epoca (gli anni '70), nonostante si racconti di tutto un sistema corrotto alla radice, si sente che c'è afflato più ottimista e speranzoso di poter cambiare le cose in meglio. Ed in questo è è genuino, ed è un film figlio della sua epoca. I film di denuncia sociale (perlomeno quelli del sistema hollywoodiano, per il resto non sono scafato) paiono tutti preconfezionati, innocui, Oscar-bait, poco sentiti.
            Spoiler! Mostra

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            • 6 UNDERGOUND di M.Bay

              Da qualche parte, tra i luccicosi meandri di questa roba che non sapre proprio come definire, deve esistere un film vero e proprio.
              Presumo che M.Bay abbia assemblato un discreto prodottone action munito di scenari turistici suggestivi e di scene dotate di nesso & ragione, dopodichè gli è partito l'embolo autorialista, ha indossato un paio di scarponi militari con la suola chiodata, e ha fatto tutto a pezzi, calpestando la "pellicola" con gran gusto.
              Infine, ha giuntato i frammenti rimasti a casaccio, nel mentre sghignazzando.
              Da questo ardito procedimento costruttivo si origina un effetto estetico singolarissimo, che descriverei così: il film va talmente veloce, e in maniera talmente insensata, che la mente non fa letteralmente in tempo a registrare quanto le ha fatto schifo la ripresa X, perchè quella successiva, per essere decodificata, richiede subito tutta la tua attenzione indivisa. Ne risulta una vorticosa corsa a ostacoli che annichila la memoria breve, un loop amnesico infinito che alimenta nel pubblico una curiosità irriflessa per quanto-viene-dopo, impedendogli di rendersi conto del suo disgusto.
              La mente - ripeto - non fa in tempo a registrarlo, e dunque il disgusto si dissolve, viene inghiottito da un buco nero.
              In parole povere, il nostro ha inventato il film impossibile da disprezzare: è un effetto che consegue dalla sua struttura formale profonda.

              Io ad esempio non saprei rispondere alal fatidica domanda: ti è piaciuto? Se chiedo in alto loco, il cervello mi dice: dato non disponibile.

              "I'm sorry, i have a bad taste!", dice uno dei nostri eroi.

              Non scusarti, caro Michelone! Va lieto e sereno per la tua strada! Godi, fanciullo mio, stato soave!
              Ultima modifica di papermoon; 14 giugno 20, 09:38.

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              • Knives and skin (J. Reeder, 2019)

                Complice un bel servizio di Nocturno sulle registe di genere da seguire degli ultimi anni, ho recuperato questo film presentato al Sundance e a Berlino, davvero meritorio. Un incipit a la Twin Peaks per un coming of age davvero disturbante, che con uno stile a metà tra il classico indie e cromatismi refniani entra come un bisturi per scavare nelle ossessioni e nelle patologie (soprattutto sessuali) di adulti e ragazzi. Nulla di nuovo sotto il sole si dirà, ma questa Jennifer Reeder ha classe da vendere, realizzando molte sequenze che si imprimono nella memoria. Ottimi tutti gli attori. Una piccola perla di una regista che promette (molto) bene.

                Stereo (D. Cronenberg, 1969)

                Un'oretta scarsa per questa opera giovanile del grande regista canadese, che contiene già in nuce tutte le sue ossessioni d'autore in forma primigenia. Da vedere assolutamente per i cronenberghiani, magari non dirà molto a tutti gli altri. Già che restiamo in famiglia, mi ha colpito molto positivamente

                Possessor del figlio David (2020), il cui primo lungo non mi aveva colpito troppo. Siamo sulle tracce di eXistenZ, di cui amplia e allarga orizzonti e vedute, innestandosi sulle ansie di questi nostri tempi, e il ragazzo riesce a dimostrare maggiormente autonomia di stile rispetto al predecessore.

                Cavalo Dinheiro (P. Costa, 2014)

                Beniamino dei cinefili duri e puri, è indubbiamente cinema molto difficile, davvero per pochi, ma se ci si entra dentro, il portoghese riesce davvero a emozionare in profondità, come del resto anche nel successivo Vitalina Varela con cui ha forti connessioni. Attraverso la sua mdp Costa è capace di "ridipingere" la realtà, partendo da una prospettiva documentaristica per approdare a esiti opposti, quasi da video-arte. Come scolpisce lui i corpi nel buio davvero pochi altri.

                A febre do rato (C. Assis, 2011)

                Sto scoprendo a poco a poco una nuova generazione di cineasti brasiliani davvero interessante, che riesce a coniugare un controllo sulla forma senza scadere in eccessivo intellettualismo, ibridandolo con una visione molto carnale dei corpi e viscerale delle emozioni. La storia di questo poeta e di una girandola di personaggi che gravitano intorno tipo contestatari/rivoluzionari/hippie è appassionante e il regista riesce a lavorare sulle inquadrature in maniera a tratti davvero notevole (guardando ad esempio certe riprese dall'alto vien da chiedersi quanta libertà ha dato agli attori e quanto invece era già calcolato tipo storyboard). Consigliato a chi anche qui dentro ha visto e apprezzato il cinema di Gabriel Mascaro

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                • Ho visto per la prima volta The beach di Danny Boyle.
                  Leggendo qualche commento degli utenti su Imdb e qualche recensione mi pare anche più bistrattato di quanto meriti: ha sicuramente i suoi difetti (la scena dello squalo é tra le più scult in un film dagli intenti seri che ricordi), ma ha anche i meriti di mostrare i desideri e le emozioni di un giovane che viaggia da solo, ma soprattutto é metaforico del rapporto che un individuo puó stabilire con la sua terra adottiva e non nativa, della purezza delle cose finché non diventano mainstream, nonché del colonialismo e neocolonialismo (anche fin troppo esplicativa una frase di Sal sul finale) o ancora della connivenza della popolazione grazie alla quale prosperano le varie criminalitá organizzate.
                  Certo, non sono messaggi veicolati con una sceneggiatura a prova di bomba, ma nei commenti e recensioni negative che ho letto neanche li ho visti menzionati.
                  Per me il film si salva.

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                  • Originariamente inviato da Medeis Visualizza il messaggio
                    Knives and skin (J. Reeder, 2019)

                    Complice un bel servizio di Nocturno sulle registe di genere da seguire degli ultimi anni, ho recuperato questo film presentato al Sundance e a Berlino, davvero meritorio. Un incipit a la Twin Peaks per un coming of age davvero disturbante, che con uno stile a metà tra il classico indie e cromatismi refniani entra come un bisturi per scavare nelle ossessioni e nelle patologie (soprattutto sessuali) di adulti e ragazzi. Nulla di nuovo sotto il sole si dirà, ma questa Jennifer Reeder ha classe da vendere, realizzando molte sequenze che si imprimono nella memoria. Ottimi tutti gli attori. Una piccola perla di una regista che promette (molto) bene.
                    Questo ammetto che l'avevo depennato fermandomi al metacritic negativo, ma guardando meglio sembra valga la pena darci uno sguardo.

                    Originariamente inviato da Medeis Visualizza il messaggio
                    Possessor del figlio David (2020), il cui primo lungo non mi aveva colpito troppo. Siamo sulle tracce di eXistenZ, di cui amplia e allarga orizzonti e vedute, innestandosi sulle ansie di questi nostri tempi, e il ragazzo riesce a dimostrare maggiormente autonomia di stile rispetto al predecessore.
                    Fino a poco tempo fa su imdb risultava solo sci-fi, ora ho visto che tra i generi hanno aggiornato anche con "horror".
                    Luminous beings are we, not this crude matter.

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                    • Originariamente inviato da Sir Dan Fortesque Visualizza il messaggio

                      Questo ammetto che l'avevo depennato fermandomi al metacritic negativo, ma guardando meglio sembra valga la pena darci uno sguardo.



                      Fino a poco tempo fa su imdb risultava solo sci-fi, ora ho visto che tra i generi hanno aggiornato anche con "horror".
                      Secondo me merita, io in genere diffido un po' dei film indie del Sundance perché è più o meno sempre la stessa roba fighetta radical-chic per cui sono rimasto abbastanza sorpreso dalla crudezza di alcune situazioni, oltre alla ricchezza di idee di messa in scena, anche se magari non tutte centrate al 100 %

                      Il film di Cronenberg jr. ha alcuni sprazzi gore parecchi insistiti, per cui sì, certamente ha anche una buona componente horror

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                      • Umberto D. di Vittorio De Sica (1951).

                        Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti, erroneamente a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale (Giulio Andreotti)


                        Probabilmente per apprezzare in pieno Umberto D. di Vittorio De Sica (1951), bisogna avere una certa età o comunque aver passato le difficoltà economiche che poco a poco contribuiscono al degrado umano, di sicuro si può affermare che non si deve essere il protagonista del film per affermare che la suddetta opera è un capolavoro assoluto del cinema mondiale. Avvalendosi di un cast di attori non professionisti, cominciando dalla figura principale interpretata dall'accademico Carlo Battisti, così come altre figure principali di contorno come la servetta Maria, interpretata da Maria Pia Casilio, successivamente caratterista in molte altri film, si deve proprio a queste scelte nonchè alla sceneggiatura di Cesare Zavattini, nonchè alla grandissima regia di Vittorio De Sica, la piena riuscita dell'opera che si distacca da certo documentarismo neorealista, per farsi parabila universale dei sopprusi e delle ingiustizie presenti nella società, che proprio come la dichiarazione di quella merda umana di Andreotti, vuole nascondere sotto al tappeto i reali problemi del paese, per autocelebrare sè stessa. La Roma in cui si agira Umberto Domenico Ferrari insieme al suo cane Flaik, è una città avviata verso una massificazione sociale dove i ritmi indiavolati del lavoro e del progresso imminente di lì a poco, porteranno al boom economico ma a livello umano si arriverà sempre più ad una maggiore insensibilità se non indifferenza sociale verso il prossimo in difficoltà. La trama è semplice e lo sviluppo è linearmente elementare, eppure nella sottrazione narrativa De Sica riesce a costruire una pellicola poetica e pregna di solitudine, umiliazioni, degrado, sensibilità, disperazione ed infine speranza, quest'ultima però coerentemente con le opere precedenti del regista è indirizzata verso un orizzonte privo di risoluzione e dal futuro incerto, non sapremo in effetti cosa potrebbe accadere ad Umberto D. o alla servetta Maria con cui ha stretto amicizia, altrettanto disperata perchè incinta di due uomini che rifiutano di assumersene la paternità, ma continuare a vivere è un imperativo categorico per affermare prima di tutto la propria vittoria nella battaglia per affermare la propria esistenza, in una società progettata per relegare gli indesiderati ai margini e privarli di una voce, perchè imbarazzanti per un paese che vuole dirsi civile e volto solo a guardare in avanti.

                        La fotografia dai netti contrasti chiaroscurali di G.R. Aldo esalta i progressivi mutamento d'animo del protagonista ed il suo legame indissolubile con il cane Flaik, spesa inutile direbbe qualcuno, perchè l'uomo con una pensione di appena 18000 lire (con 10000 di solo affitto) non riesce più a campare decentemente, però non di solo pane vive l'uomo e quella spesa extra a livello materiale derivante dal cane è nulla rispetto al legame umano avvenuto con l'animale e l'affetto salvifico che egli dona all'uomo, Umberto D. esemplifica meglio di moltissimi altre pellicole specificamente legate all'argomento, il rapporto tra l'uomo ed il cane oramai addomesticato da millenni e divenuto una presenza imprescindibile nella vita dell'essere umano, donandogli affetto e fedeltà, in una società sempre più complessa e mostruosa, dove i vecchi conoscenti del protagonista ad una richiesta di aiuto da parte di questi ultimo, eclissano velocemente la questione adducendo la fretta di andare al lavoro di dover prendere il tram.
                        La simpatia del regista è ovviamente verso gli ultimi e gli indifesi, il potere politico è insensibile alle richieste dei pensionati di un aumento mandandogli contro la polizia, la padrona di casa Antoni (Lina Gennari) è insensibile ai bisogni dell'uomo anziano e non vede l'ora di cacciarlo di casa, la suora gli assicura un posto prolungato in ospedale in cambio di pigre attestazioni di fede ed infine gli amici e conoscenti dell'uomo, vedono con malcelato imbarazzo le sue richieste di aiuto liquidandolo velocemente appena possibile.
                        Il percorso verso una speranza è impossibile se non si è attraversato prima la sofferenza più nera, Umberto D. mangia da tempo alla mensa dei poveri per risparmiare, poi cerca di farsi ricoverare in ospedale il più a lungo possibile per fare economia ed infine cerca di abbassarsi a compiere elemosina, per poi recedere per l'imbarazzo (lui ha lavorato una vita intera, non può abbassarsi a questo), giungendo alla consapevolezza di come questo schifoso mondo non lo voglia più ed allora è meglio tentare il suicidio, in una struggente e devastante sequenza di abile scandaglio psicologico e tensione insostenibile per il montaggio, che alla fine ci porta ad una rinascita del personaggio in una vita sempre penosa ed amara, ma con la consapevolezza di un legame con Flaik che gli fà comprendere l'unica cosa veramente importante; vivere!
                        Umberto D. è un perfetto esempio di come fare un capolavoro con pochi spiccioli, avvalendosi della sola forza della scrittura e della potenza registica che toglie il superfluo per giungere al nocciolo dell'animo umano, venendo per questo trattata con una certa ostilità dalla critica e dal potere politico e accolta molto freddamente dal pubblico dell'epoca.

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                        • Il Silenzio di Paga con la Vita di William Wyler (1970).

                          Ultimo film del leggendario William Wyler, autore di una carriera lunga di più quarant'anni, attraversando ben 4 decenni ed i vari mutamenti sociali, partendo dagli anni finali del cinema muto, giungendo poi all'inizio della nuova Hollywood con livelli sempre alti, anche se da parte di alcuni su internet leggo che è sopravvalutato e metteva la macchina da presa un po' qua e là, per poi farsi le pippe sull'ultimo film di supereroi e poi criticano ciò che non capiscono. Ignorando tali stupidi giudizi da parte di persone che non capiscono nulla di cinema, anche alla veneranda età di 68 anni Wyler con Il Silenzio si Paga con la Vita (1970), confeziona un filmone cinico e super pessimista dei bei tempi andati, di stampo un po' teatrale, ma di gran fattura cinematografica. Al suo ultimo film, Wyler gira un'altra "storia americana", ma senza le restrizioni del codice Hayes, mettendo in scena uno scontro razziale tra bianchi e neri ambientato nel Tennessee, dove un impresario di pompe funebri di colore Jones (Lee Browne), chiede all'avvocato Hedgepat (Lee J Cobb) di patrocinare la causa di divorzio verso sua moglie Emma (Lola Farlana), per via dei continui tradimenti di lei verso l'agente di polizia bianco Willie Joe (Anthomy Zerbe), che è terrorizzato da un possibile processo, per via dello scandalo a cui sarebbe soggetto verso la sua famiglia e la comunità, temendo di perdere il lavoro oltre che la reputazione. A dispetto di filmetti come Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer (1967) e altre scemenze liberal, il film di Wyler presenta un regime di apartheid, dove le due comunità hanno ben pochi contatti, che quando avvengono sono sempre basati sulla violenza e la sopraffazione, senza possibilità di riconciliazione, dato l'odio razzista da parte di tutti i personaggi, a cominciare dal sindaco della comunità e dall'avvocato Hedgepat, per poi proseguire con le sistematiche violenze praticate dalla polizia verso le persone di colore, regolarmente impunite dal sistema omertoso se non connivente.

                          Tecnicamente sopraffino come tutti i film del regista, che ha raggiunto da tempo la padronanza totale con la macchina da presa, Wyler analizza tutti i componenti di questa comunità, con uno sguardo estremamente chirurgico e un tono fortemente pessimista, senza lasciare scampo a nessun personaggio preda delle proprie ingenue illusioni giovanili o della propria chiusura mentale razzista.
                          In Jones c'è la dignità di un uomo di colore che ha subito le angherie e gli insulti troppo a lungo, anche dopo aver raggiunto una posizione sociale di rilievo nella comunità locale, è sempre e solo uno "sporco negro" per le autorità bianche e nel progredire della narrazione una scheggia impazzita da mettere a tacere, perché vuole divorziare a tutti i costi tramite un processo visto che la moglie non vuole chiudere consensualmente la pratica di divorzio. Negli Stati del Sud anche un divorzio tramite un avvocato diventa un problema enorme, che sconvolge lo status quo imperante. Partendo in sordina tramite due storie parallele (ed appesantito da una sottotrama abbozzata e troppo riempitiva del nipote dell'avvocato anti-razzista), che mano a mano s'incrociano tra loro, negli ultimi 30 minuti c'è una escalation di violenza inaudita, con un terrificante regolamento di conti tra Jones e gli agenti di polizia, che vogliono fare di tutto per impedire il processo, scontrandosi con la ferma e decisa volontà dell'uomo e chiudendo il lungometraggio all'insegna di un glaciale status quo, che dice tutto su cosa gli Stati Uniti sono fondati; sangue e violenza in un eterno ciclo ripetitivo senza fine tramite una scena che riconduce il tutto all'essenza americana della terra e del grano, concludendo la pellicola con un finale che concettualmente rimanda al capolavoro assoluto Piccole Volpi (1941), ma in modo ancor più caustico e pessimista. Flop di pubblico e di critica all'epoca, se il cast di attori sconosciuti ed il razzismo degli spettatori degli stati meridionali degli USA può essere una motivazione di ciò per spiegare il primo (oltre metà degli attori sono di colore), inspiegabilmente il massacro critico che etichetto' l'opera come vecchia di 10 anni rispetto ai tempi in cui era uscita resta inspiegabile, perché il contenuto era di forte attualità e degno di uno Spike Lee in forma, forse evidentemente la critica perbenista USA credeva che il razzismo fosse stato sconfitto con i diritti civili del 1964 e filmetti come Indovina chi viene a cena?, ed il testamento artistico di Wyler era troppo duro, pessimista, schietto su certi argomenti e profondamente anti-accademico nonostante sia stato per decenni l'emblema del regista accademico con le sue 12 nomination. Purtroppo il flop fu fatale e forse sentendosi un regista vecchio innanzi al nuovo cinema, Wyler a 68 anni appese la macchina da prese al chiodo fino alla morte, con il suo ritiro il cinema perse uno di coloro che avevano posto le basi di esso dal punto di vista tecnico.

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                          • Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman (1957).

                            In'epoca dove da ogni film si devono trarre trilogie o universi condivisi di svariate decine di pellicole, dove ognuna dura circa 2 ore e mezza ed ha una profondità contenutistica pari al peso di un sassolino, vedere un'opera come il Settimo Sigilli di Ingmar Bergman (1957) è un atto di resistenza contro lo scadimento della settima arte e una dichiarazione d'amore verso il cinema vero, che non richiede di allungare ogni scena all'inverosimile o usare un misero spunto per tirare a campare vari film, ma in poco più di 90' minuti condensa una miriade di concetti universali, affrontandolo con argomentazioni di rara profondità argomentativa e scandaglio psicologico dei personaggi.
                            Vedere il Settimo Sigillo è come bere un frappè superconentrato di gusti, dove i sapori non fanno a cazzotti tra loro, ma riescono ad armonizzarsi alla perfezione richiedendo l'impegno degustativo per assaporare ogni singolo ingrediante, finendo poi con il sentirsi alla fine del pasto piacevolmente nauseato per il concentrato di gusti ingeriti, ma consapevoli di aver assaporato un qualcosa di difficilmente gustabile in futuro.
                            Antonius Block (Max Von Sydow) vaga in una Svezia di metà 300' flaggellata dalla peste dopo aver passato anni in una crociata insieme al suo scudiero Jons (Gunnar Bjonstrand), ma lungo il tragitto di ritorno al proprio castello, su una spiaggia che sembra quella del Purgatorio di Dantesca memoria, il cavaliere crociato incontra la Morte (Bengt Ekerot), la quale reclama la sua vita, ma l'uomo riesce ad ottenere un rinvio della sua dipartita decidendo di sfidarla a scacchi. L'atmosfera è tetra e cupa, siamo alle soglie dell'apocalisse, la gente scappa dalla peste invocando l'intervento divino per placare la piaga, senza ottenere alcuna risposta e finendo con il peggiorare solo l'epidemia per via degli assembramenti durante le processioni religiose, la loro fede è una tacita accettazione dell'esistente e la peste non è altro che una prova divina da dover sopportare in modo passivo senza porsi alcuna domanda sul perchè essa non cessi. Nell'assenza di Dio o nel suo silenzio, il cavaliere crociato tramite la partita a scacchi cerca di guadagnare tempo per sciogliere questo suo dubbio amletico, il mondo di cui ha concezione è fatto di bianchi o neri fortemente contrastati tra loro (strepitosa la fotografia di Gunnar Fischer), come il colore degli scacchi, il nero non è mai stato così oscuro e profondo come l'abisso dell'ignoto che spaventa l'uomo, mentre il bianco simbolo di luce non offre risposte perchè esso non riscalda nè illumina il sentiero percorso dall'uomo. Lungo il suo cammino la dicotomia colorimetrica viene sempre più messa in discussione sino a fondersi in un grigio pastoso e tetro tipico del nord Europa, come è lo stato d'animo del cavaliere che si apre sinceramente nella profondissima scena del confessionale, scambiando la morte per un prete, nel tentativo di trovare certezze e risposte ai suoi dubbi esistenziali. Abbiamo un confronto tra la morte in quanto entità universale e il cavaliere portatore di morte, che durante la crociata ha ucciso chissà quanta gente in nome della sua fede.

                            Da una fede a-critica, siamo passati ad attestazione religiosa molto più dubbiosa, la peste ha sconvolto tutto l'esistente e non accenna in alcun modo a placarsi nonostante le suppliche e le processioni numerose volte a far si che il contagio si fermi, forse a questo punto vale la pena mandare al diavolo il tutto e pensare a campare come meglio si può fino alla propria dipartita imminente oppure nel tentativo estremo di risolvere la situazione, cercare rifugio in credenze e superstizioni di stampo pagano come trovare una presunta strega adoratrice del demonio secondo loro e quindi responsabile dell'epidemia. Sempre più scettico e dubbioso della propria fede, il cavaliere chiede un'attestazione della presenza di Dio, ma in questo modo verrebbe meno l'aspetto tipico della fede; il credere senza avere un segno tangibile della presenza divina nel mondo, specie poi quando esso sembra oramai alla sua fine.
                            L'essere umano, specie se prossimo alla dipartita, non può accettare di concludere la propria vita nell'abisso del nulla, non può il cavaliere che ha speso 10 anni in una crociata che a conti fatti è sarebbe risultata solo un inutile massacro fine a sè stesso, oltre che spreco totale di larga parte della propria esistenza, basterebbe un segno o anche solo un sussurro nelle profondità della propria anima di Dio per poter avere un ristoro sicuro e una dipartita serena, ma dubbio, angoscia e fede sono un tutt'uno, un'eterna lotta che presuppone un abbandono incondizionato a Dio senza nulla in cambio ed accettare l'esistente, ma porsi in questo modo in relazione con Dio implica svilire il concetto di uomo, subordinato e martoriato, senza mai una messa in discussione seria.
                            La Morte potrebbe fornire risposte, ma essa non ha nulla a che fare con Dio o la religione, d'altronde a prescindere se si è credenti o meno, la morte è l'unica cosa certa ed uguale per tutti, un elemento del circolo della vita sempre esistito, si può rinviare tramite una partita a scacchi giocata in modo onorevole, ma come ben sanno Antonius Block ed il suo interprete Max Von Sydow, che c'ha lasciato da pochi mesi, alla fine il risultato della partita non può che essere lo scacco al re e quindi la sconfitta, un punto di arrivo comune a tutti gli esseri umani, a chi prima e chi dopo, chi di destra o chi di sinistra (o post-ideologico o apolitico o anarchico) e chi è credente (il cavaliere) o non credente (lo scudiero nichilista Jonas); una possibile risposta puramente personale sulla base della pellicola è forse smettere di porsi domande comuni a tutti gli uomini dotti o di un certo spessore culturale sin dall'antichità e di limitarsi a vivere la vita nelle sue cose che contano, non è un caso che l'unico momento di ristoro e serenità del cavaliere è quando incontra la famiglia di saltibanchi, a livello simbolico rappresentano l'arte, la famiglia e l'amore, tre elementi che danno "l'immortalità" e portano ad affrontare un'esistenza più serena, portando ad una pacificazione interiore del cavaliere e una concezione più misericordiosa e positiva nel vissuto della propria fede in rapporto a Dio.

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                            • L'Imperatrice Caterina di Joseph Von Sternberg (1934).

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                              La storia viene subordinata all'estro visivo-registico di Joseph Von Sternberg decisamente a suo agio con i barocchismi, l'iconografia e la sovrabbondanza di particolari diluita ed esaltata dal totale controllo del montaggio, composto per lo più da inquadrature costruite tramite l'uso della dissolvenza, usata non come mera transizione e basta, ma come strumento per "dilatare" il più possibile le immagini, in modo da sovrapporle e creare composizione visive debordanti nella loro sovrabbondanza.
                              Ricco di simboli a cominciare dalle imponenti porte con maniglie ad altezza d'uomo ed immagini artistiche che ritraggono sempre scene di violenza, Von Sternberg finisce con il cogliere registicamente quello che la sceneggiatura omette, cioè il clima che si respirava in una corte europea basato su un generale tutti contro tutti, intrighi, tradimenti, delusioni e mosse articolate per mantenere il potere o comunque la propria posizione elevata a corte. L'eros sprigionato dalla Dietrich, viene altamente valorizzato dalle scenografie immense e dalla fotografia ultra.ricca, influenzata dai canoni di un espressionismo non più fatto dalle luci taglienti, ma da un illuminazione molto più articolata con vari piani di luce per creare composizioni visive raffinate ed originali, in cui si mostra tutto l'estro del regista che inizialmente era un semplice tecnico delle luci.
                              Marlene Dietrich resta credibile in tutte le fasi evolutive del personaggio, comincia come ragazzina spaesata con quel viso "infantile" e gli occhi spalancati persi ed atterriti per un ambiente estraneo se non ostile a lei, dal quale viene per tutta la prima parte soggiogata e sottomessa ai voleri della zarina Elisabetta e disprezzata dal marito, per poi prendere coscienza della propria capacità seduttiva e conquistarsi un largo stuolo di ammiratori in modo da proteggere sè stessa e mantenere salda la propria posizione, per poi infine prendere le redini della situazione e della propria vita, guidando un colpo di stato tramite i membri della guardia imperiale a lei fedeli, sfidando apertamente le pazzie del marito, quando obbliga i suoi soldati a buffe marcette nel palazzo e le punta contro i fucili, ma la Caterina resta impassibile ed esce da una situazione difficile con maturo sarcasmo, diventando poi l'imperatrice Caterina II, chiamata poi Caterina la Grande, colei che porterà l'impero Russo nell'epoca d'oro modernizzando il paese, portando una ventata d'aria di novità in uno stato troppo a lungo isolato dall'Europa continentale. Il trionfo della visionarietà di Von Sternberg che vede la Russia come un posto barbaro e medioevale, con una sequenza iniziale di tortura esplicite ordinate dai vari zar precedenti, possibile solo grazie al fatto che il film fosse stato realizzato prima della fine del codice Hayes, storicamente inattendibile in tutto ed il trionfo del kitsch secondo i detrattori, resta uno dei film più grandi mai fatti usciti da Hollywood.

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                              • Gueros di Alfonso Ruizpalacios (2014)

                                Esordio alla regia del giovane messicano già regista teatrale che qui, lungi dall'adottare un approcio che ricordi la sua altra professione, si adopera semmai per creare un'esperienza quanto più cinematograficamente pura possibile.

                                Viaggio nella memoria su più livelli, il film di Ruizpalacios segue il girovagare senza trama dei suoi protagonisti attraverso uno sguardo in cui è possibile riconoscere tutti i suoi modelli, filtrati da un occhio di indubbio talento e creatività (anche se forse ancora un po' troppo a rischio "esercizio di stile").

                                C'è soprattutto la Nouvelle Vague, non solo quella francese palese di Godard e Truffaut (con tanto di fermo immagine finale in omaggio a I 400 colpi), ma anche quella tedesca con un occhio al Wenders on the road, ma vengono in mente anche Fellini e Jarmusch.

                                La camera di Ruizpalacios alterna contemplazione fissa degli ambienti e dei personaggi che vi agiscono, a una camera a mano energica e affamata (e sempre più presente man mano che la storia procede) che spesso sfocia nella soggettivizzazione della messa in scena, fino anche a palesare la propria natura di occhio filmico (una su tutte: la sequenza del fratello maggiore "fumato").
                                Gli effetti sonori sono sempre in primo piano, immersivi e spesso accompagnati da una colonna sonora elettronica quasi febbrile, persino "spaziale" (in taluni casi con funzione di vero e proprio sound design) che contribuisce alla creazione di uno spazio-tempo altro.
                                Anche sul fronte della scrittura si va in una direzione che alterna la spontaneità naturalistica a una riflessione metafilmicia, con addirittura un preciso momento di sfondamento della quarta parete in cui un personaggio parla del film stesso.
                                Questo dialogo con i padri filmici è un primo livello.

                                Poi c'è quello con Città del Messico, che, al pari della Parigi della Nouvelle Vague, diventa personaggio testimone e testimoniato della vicenda, ogni tappa un'occasione per mostracene una faccia magari mai vista prima (c'è anche una linea di dialogo metafilmica abbastanza esplicita su questa necessità).
                                L'amore per la città traspare da ogni inquadratura degli ambienti, specialmente gli affascinanti notturni delle strade deserte.
                                Ruizpalacios è bravo a trarre la magia dall'inquadratura, una sorta di realismo magico che lo accomuna ad altri registi già citati.

                                Un terzo livello si riflette nell'ambientazione storica, un preciso 1999, che traspone anche materiale autobiografico del regista (tutta la parte riguardante l'occupazione dell'università).
                                Probabilmente il regista si rispecchia soprattutto nella figura del fratello maggiore e del suo rapporto con la sua amica e potenziale ragazza, motivo per cui è anche il personaggio più inquadrato del gruppo, un po' a discapito degli altri due personaggi maschili, il fratello minore che all'inizio sembrava addirittura il protagonista (ma che in realtà ha più la funzione di compagno dello spettatore) e l'amico del fratello maggiore.

                                Un ultimo livello, più tenue e non così approfondito, è rappresentato dall'esile pretesto narrativo che guida l'avventura urbana del gruppo, la cerca quasi fiabesca (Ladri di biciclette?) del "leggendario" cantante, amato dal padre perduto, che è stato da poco ricoverato per cirrosi epatica.
                                Di lui non si sa nulla, neanche l'aspetto, se non che si narra che una volta una sua canzone ha fatto piangere Bob Dylan.
                                Il viaggio è scandito attraverso una serie di capitoli introdotti da quadri disegnati e intitolati ai punti cardinali man mano che ci si sposta in un'altra parte della mappa della città.
                                Lo spunto della cerca come tentativo di preservare la memoria del padre, forse di confrontarsi con la sua figura perduta, resta comunque molto meno compiuto e più evanescente rispetto agli altri "dialoghi col passato", quasi un pretesto con una risoluzione prevedibilmente anticlimatica.

                                Insomma, un regista dal potenziale, a tratti un po' troppo preso dal proprio stile ma sincero e partecipe della sua arte.
                                Molto curioso di recuperare il suo prossimo film, Museo (che, dalla sinossi e dal titolo, mi pare che sia un'altra scusa per affrontare delle dinamiche con il passato), per vedere come si risolve il suo incontro con un cinema più di genere e magari più fortemente narrativo.

                                Ultima modifica di Sir Dan Fortesque; 15 giugno 20, 09:28.
                                Luminous beings are we, not this crude matter.

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