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  • Ragazze, guardate, ho avuto un periodo di inferno che non vi dico. Mi porti subito un mimosa, presto.

    E anche per oggi siamo stati politicamente scorretti, che non si può dire più nulla, maledette SJW.

    Cmq è vero, qualcosa ho visto, ma una cosa è vedere 2 ore un film, un'altra è prendersi il tempo di scrivere.
    Cosí passa il tempo e rimugini se veramente hai qualcosa da dire su quello che hai visto, se la tua testimonianza può dare un contributo anche minimo, può magari portare uno spunto interessante per qualcuno.
    Naturalmente se sono qui ha scrivere questo post la risposta è...
    NO. Però sarò breve.

    Seance - Piccoli omicidi tra amiche (Simon Barrett, 2021)

    Film di esordio di Simon Barrett, famoso sceneggiatore di film come You"re The Next o The Guest, splatter che, al di là della trama in sé, colpivano per la giusta quantità (ovvero, smisurata) di massacri e uccisioni che vi si svolgevano.

    Con questo film ha voluto passare in cabina di regia e il risultato è un film horror a base di jump scare e un gruppetto di persone eliminate via via.
    Siamo in un college femminile esclusivo americano e per esclusivo si intende che le studentesse sono solo 10, il gruppo di protagoniste e 2 altre che si vedono camminare nel corridoio e presenziare alla lezione.
    Si ho scritto tutto al singolare che il resto non esiste in questo film.
    Pochi attori e set minimi, le stanze delle ragazze sono sempre la solita ma riammodellata al minimo e lo scantinato della scuola funge anche da archivio.
    Ad un certo punto, dopo l'ennesima uccisione, viene detto che è stata chiamata la polizia e che sta arrivando ad indagare ma noi non vediamo niente di tutto ciò.

    Ma la cosa piú grave è che uno da Barrett si aspetta solo una cosa, ovvero litrate di sangue. E invece risulta un film totalmente anemico, la gente muore in scialbe scene di paura con al massimo un pò di sangue alla bocca.
    Certo, si esclude da questo la scena finale, dove si vedono belle cose ma si parla davvero di 3 minuti su un'ora e mezzo.
    È quasi palese che questi avevano i soldi solo per due barattoli di sangue finto e aveva paura di finirlo prima di filmare la scena finale, che però cosí risulta paracula perché sembra proprio fatta apposta per tappare la falla della pochezza del resto.

    Altro da dire? Si, e solo male.
    Naturalmente si parla di un gruppo di otto ragazze in un horror, quindi non vuoi che il film inizia con loro struccate con i pigiamoni per poi, andando avanti nel film, mostrare sempre di piú magliettine attillate e una maggior cura dell'estetica delle nostre?
    Tutte cose apprezzabili ma fatte con una didascalità e innaturalezza che scade nel ridicolo.

    Insomma, un film inspiegabile, spero solo che abbia quel minimo di successo che porti Barrett a un successivo film con piú forma e sostanza.
    Sostanza soprattutto monetaria, mi verrebbe da insinuare.

    Però è un film che davvero non ha senso visto in una piattaforma streaming.
    Se come me, paghi 7 euri e 50 per vederlo al cinema, è veramente una mezza truffa.

    Red Rocket (Sean Baker, 2021)

    Ecco, approposito di in sala al cinema.
    Mi sono visto anche questo film al cinema in una sala deserta.
    Cioè, ero solo io.
    Esperienza che oserei definire imbarazzante.

    In quanto Red Rocket è la nuova opera di Sean Baker, il regista di quel filmone che è Un Sogno Chiamato Florida e parla di una ex pornostar che, tornando ad abitare dalla moglie in Texas, si interessa alla commessa di un negozio di ciambella appena maggiorenne (17 anni).
    Lui vede in lei una nuova stella del porno e la sua rivincita nell'industria che lo aveva escluso.
    Naturalmente inizia con questa ragazzina una relazione e il film ha un buon numero di scene di sesso, volutamente fastidiose, proprio perchè noi, al contrario della ragazzina, sappiamo le orrendi intenzioni di lui.
    E quindi io mi vedevo questo film da solo e ogni tanto passava la maschera che mi trovava in solitudine a vedere questo film che ammicca alla morbosità versante pedofilia.
    VI dico solo che quando mi accorgevo che era in sala frenavo l'impulso di alzare le mani per far vedere che non stavo facendo niente di onanistico.


    Molto carino invece è il film, per quanto essendo piú film rispetto al film precedente, con una trama e una più definita costruzione dei personaggi, si perda quel naive che rendeva magico per me Un sogno Chiamato Florida.
    Lo so, sto parlando di aspettative e non è mai un bene, ma ci tenevo solo a dirlo.

    Poi c'è il problema che nel vedersi doppiati questi film si perde molto, visto che il regista si concentra tanto sul voler scavare sulla ruralità dei singoli stati, dando molto importanza persino agli accenti dei personaggi.

    Il Texas c'è con le sue diseguaglianze e il suo petrol chimico. I mega centri commerciali.
    ​​​​​
    Magari si ribadisce che a Baker del finale dei suoi fiom non frega nulla e anche questa volta va bene così.

    Cmq, ripeto, è un film ben fatto, ha un paio di scene devastanti
    Spoiler! Mostra
    che valgono davvero una visione.

    Comunque dovrebbe essere nominato agli Oscar per qualcosa, se non credete in me.
    Ultima modifica di fiordocanadese; 17 marzo 22, 23:36.

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    • A me il finale di La persona peggiore del mondo non è dispiaciuto in sé, nel senso che anche quel registro è gestito bene, però non so visto tutto il resto del film
      Spoiler! Mostra

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      • Originariamente inviato da MrCarrey Visualizza il messaggio
        Ottima disamina Gandalf, come sei solito fare!

        Il titolo selezionato per il cine(bad)forum della settimana è diventato "La Persona Peggiore del Mondo"
        Allora non leggerò un singolo commento per non farmi influenzare.

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        • Commento molto soggettivo su La persona peggiore del mondo e su Trier in generale, senza stare ad analizzare il film che si analizza abbastanza bene da solo.

          Trier è di quei registi scoperti quando ancora si potevano considerare giovani registi (ma per me lo è ancora, tutto sommato), i suoi primi due film li vidi anni fa e ricordo che mi piacquero e che me lo fecero segnare tra i talenti emergenti da tenere d'occhio.
          Nonostante questo però non mi ricordo assolutamente nulla e non mi hanno lasciato la voglia di rivisitarli.

          Poi per me c'è stato un vuoto di 7-8 anni, interrotto con la visione di Thelma.
          Ecco questo mi è rimasto più impresso (e probabilmente lo rivedrò prima o poi); sarà che i film di genere diretti da registi non di genere hanno spesso qualcosa di speciale, sarà che aveva la colonna sonora non composta da Howard Shore più "shoriana" che abbia mai sentito che già da sola dava al film un'atmosfera d'inquietudine pazzesca, ma mi ha lasciato un bel ricordo.

          Poi ho recuperato in ritardo il suo lavoro americano, lo ricordo non spiacevole ma dimenticabile (e non nel senso dei suoi primi film).

          Quest'ultimo non saprei dire al 100% se sia quello che mi è piaciuto di più, ma a intuito direi che è così.
          E' bello vedere invecchiare il regista assieme ai suoi attori/personaggi, come è bello vederlo ottenere un riconoscimento su larga scala come quello degli Oscar (croce e delizia dei premi cinematografici).

          Il film non è il primo e non sarà l'ultimo che tratta argomenti simili in maniera simile, ma alla fine ciò che conta è riuscire a farlo tramite un/a protagonista di cui condividere le esperienze di crescita per lo spazio del film per poi portarsene dietro un pezzo negli anni a venire, e credo che in questo caso Trier sia riuscito (farò un check up tra qualche anno).

          Ammetto che arrivato alla fine mi ha un po' perso

          Spoiler! Mostra


          Comunque, nonostante una conclusione per me non all'altezza del film che la precede, resta un lavoro notevole, riconferma del talento di Trier.
          Luminous beings are we, not this crude matter.

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          • Sono d'accordo, nel senso che arrivato a due terzi della durata pensavo "ok fantastico, ma come lo concludi questo film?" e quello che viene dopo non è nulla di estremamente problematico (anzi, contiene anche una delle scene più belle del film), però con una conclusione più originale e più aderente al resto del film per i miei gusti sarebbe stato un lavoro da cinque stelle.
            Intanto ho recuperato il suo primo film su Netflix, Reprise, sicuramente è molto grezzo (più "punk") ma già lì si vede un interesse per i temi ripresi nell'ultimo lavoro e il gusto per la sperimentazione nel racconto (prevalente soprattutto nella prima parte, con un montaggio e una narrazione veloce abbastanza personale nonostante ricordi altri film).

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            • Recuperato TRE PIANI di Nanni Moretti.
              Una cosa notevole ce l'ha questo film, l'inquadratura che mette assieme Riccardo Scamarcio e l'attrice che interpreta sua moglie (non voglio riportare il suo nome, non voglio rischiare che mi si fissi nella mente, non voglio pensare che sia un'attrice in ascesa e che la si beccherà in altri film importanti), l'attrice che in ANNA interpretava la madre della protagonista (e se quest'ultima rappresentava lo zenit fulgido della sbilenca ma intrepida miniserie di Ammaniti, sua madre rappresentava l'acquitrinoso nadir, e per poco è durata la speranza che lei sparisse assieme al resto della gente adulta dato che fino alla fine in voice over ci perseguita col suo tono agghiacciantemente impostato): quell'inquadratura di loro due assieme è una sorta di congiunzione astrale della cagnitudine attoriale, ho avuto la sensazione che lo schermo come in VIDEODROME si opacizzasse e si tendesse con espirazioni profonde come se lì dentro l'aria si fosse fatta ammorbante.
              Per il resto è un film in cui porco cazzo se qualcosa è andato storto!
              Mi ha fatto venire in mente NEW YORK, NEW YORK che è un film che adoro e che nondimeno si potrebbe definire un glorioso fallimento dato che si è voluto con arditezza coniugare le convenzioni (di forma e narrazione) dei fastosi musical degli anni d'oro con un'impostazione new hollywoodiana che quelle convenzioni tutte decostruiva (pur omaggiandole), ottenendo un'opera eccentrica: E' NATA UNA STELLA '54 (che pur debordando nella struttura manteneva un'aura classica) slabbrato da un andamento rapsodico al contempo irrequieto e ridondante, tipo la scena iniziale tra De Niro e Minnelli che non finisce mai, con gli attori che sembrano improvvisare il dialogo con una pervicacia che disorienta (come succede nelle prove registrate di RE PER UNA NOTTE, documento eccezionale), spremendoci fuori ogni stilla di potenziale espressivo, della seduzione di un disadattato, di un disperato, dalla nevrosi incipiente. E' una visione frankenstein che è disagevole abbordare, financo noiosa perché no, un dissesto pagato carissimo ma però glorioso diaolostraciccio, come sempre succede quando i prodi artisti ci provano a scombinare i patti col pubblico con tale propulsiva estrosità di messinscena.
              In TRE PIANI poteva allora essere allettante l'idea di come potessero quagliare registri disorganici, da una parte una vicenda corale e domestica fatta di rapporti frananti e psicologie in forte ambascia, dall'altra l'atteggiamento tipico nei film di Moretti, una miscela peculiare di esplicitezza e straniamento (variamente dosata a seconda del soggetto ma sempre riconoscibile), ma il risultato non sa quasi di niente. Ovviamente con Moretti si evitano languori, scenate ed estenuanti tira e mòlla ma purtroppo non c'è rischio e non c'è scavo, non si ravvisa la sua personalità arguta e intransigente (quel misto di fervore e stilizzazione), manco viene ricomposto l'equilibrio di asciuttezza ed empatia del libro da cui è tratta la sceneggiatura, e a livello visivo il suo stile essenziale ma controllatissimo si fa smunto mestiere. Si spreca un avvio col botto, si spreca il personaggio più interessante (il giudice interpretato da Moretti stesso, un uomo che non sopporta più il figlio vizioso e violento decidendo quindi di mollarlo alla sua malasorte, incarnazione di un dilemma poco rappresentato, la presa di coscienza senza dubbio lacerante per un genitore di essersi rotto i coglioni in via definitiva della propria creatura), a favore di Margherita Buy che interpreta un personaggio che prima patisce poi si emancipa, ma pensa un po'.
              E insomma, non sono due ore aride come a mangiar ghiaia (quelle di A PROPOSITO DEI RICARDO, per esempio) perché l'espediente di far fare al racconto tre salti in avanti di cinque anni mantiene abbastanza desta la curiosità, e alla fine un po' del calore dell'abbraccio di tutti quei disagiati lo si avverte, però imho nulla si incide, tutto sbiadisce, il film peggiore di Nanni Moretti, di gran lunga.

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              • Originariamente inviato da mr.fred
                Elena Lietti. Si chiama Elena Lietti.

                Ho ripostato il messaggio per cui c'è l'effetto prima della causa. E va benissimo così perché in qualsiasi modo la si ponga quell'attrice sarà sempre fuori posto!!

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                • Elena Lietti. Si chiama Elena Lietti.



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                  • Originariamente inviato da Bone Machine Visualizza il messaggio
                    Recuperato TRE PIANI di Nanni Moretti.
                    Una cosa notevole ce l'ha questo film, l'inquadratura che mette assieme Riccardo Scamarcio e l'attrice che interpreta sua moglie (non voglio riportare il suo nome, non voglio rischiare che mi si fissi nella mente, non voglio pensare che sia un'attrice in ascesa e che la si beccherà in altri film importanti), l'attrice che in ANNA interpretava la madre della protagonista (e se quest'ultima rappresentava lo zenit fulgido della sbilenca ma intrepida miniserie di Ammaniti, sua madre rappresentava l'acquitrinoso nadir, e per poco è durata la speranza che lei sparisse assieme al resto della gente adulta dato che fino alla fine in voice over ci perseguita col suo tono agghiacciantemente impostato): quell'inquadratura di loro due assieme è una sorta di congiunzione astrale della cagnitudine attoriale, ho avuto la sensazione che lo schermo come in VIDEODROME si opacizzasse e si tendesse con espirazioni profonde come se lì dentro l'aria si fosse fatta ammorbante.
                    Per il resto è un film in cui porco cazzo se qualcosa è andato storto!
                    Mi ha fatto venire in mente NEW YORK, NEW YORK che è un film che adoro e che nondimeno si potrebbe definire un glorioso fallimento dato che si è voluto con arditezza coniugare le convenzioni (di forma e narrazione) dei fastosi musical degli anni d'oro con un'impostazione new hollywoodiana che quelle convenzioni tutte decostruiva (pur omaggiandole), ottenendo un'opera eccentrica: E' NATA UNA STELLA '54 (che pur debordando nella struttura manteneva un'aura classica) slabbrato da un andamento rapsodico al contempo irrequieto e ridondante, tipo la scena iniziale tra De Niro e Minnelli che non finisce mai, con gli attori che sembrano improvvisare il dialogo con una pervicacia che disorienta (come succede nelle prove registrate di RE PER UNA NOTTE, documento eccezionale), spremendoci fuori ogni stilla di potenziale espressivo, della seduzione di un disadattato, di un disperato, dalla nevrosi incipiente. E' una visione frankenstein che è disagevole abbordare, financo noiosa perché no, un dissesto pagato carissimo ma però glorioso diaolostraciccio, come sempre succede quando i prodi artisti ci provano a scombinare i patti col pubblico con tale propulsiva estrosità di messinscena.
                    In TRE PIANI poteva allora essere allettante l'idea di come potessero quagliare registri disorganici, da una parte una vicenda corale e domestica fatta di rapporti frananti e psicologie in forte ambascia, dall'altra l'atteggiamento tipico nei film di Moretti, una miscela peculiare di esplicitezza e straniamento (variamente dosata a seconda del soggetto ma sempre riconoscibile), ma il risultato non sa quasi di niente. Ovviamente con Moretti si evitano languori, scenate ed estenuanti tira e mòlla ma purtroppo non c'è rischio e non c'è scavo, non si ravvisa la sua personalità arguta e intransigente (quel misto di fervore e stilizzazione), manco viene ricomposto l'equilibrio di asciuttezza ed empatia del libro da cui è tratta la sceneggiatura, e a livello visivo il suo stile essenziale ma controllatissimo si fa smunto mestiere. Si spreca un avvio col botto, si spreca il personaggio più interessante (il giudice interpretato da Moretti stesso, un uomo che non sopporta più il figlio vizioso e violento decidendo quindi di mollarlo alla sua malasorte, incarnazione di un dilemma poco rappresentato, la presa di coscienza senza dubbio lacerante per un genitore di essersi rotto i coglioni in via definitiva della propria creatura), a favore di Margherita Buy che interpreta un personaggio che prima patisce poi si emancipa, ma pensa un po'.
                    E insomma, non sono due ore aride come a mangiar ghiaia (quelle di A PROPOSITO DEI RICARDO, per esempio) perché l'espediente di far fare al racconto tre salti in avanti di cinque anni mantiene abbastanza desta la curiosità, e alla fine un po' del calore dell'abbraccio di tutti quei disagiati lo si avverte, però imho nulla si incide, tutto sbiadisce, il film peggiore di Nanni Moretti, di gran lunga.
                    Ahahahaha grazie per questa immagine.
                    Comunque, secondo me su Tre Piani ci ha visto giusto Meale quando cita, come termine di paragone, Il Condominio di Ballard, dove tutti finiscono per scannarsi a vicenda... qui finisce tutto a tarallucci e vino, diventano tutti buoni, ma che è? Sul resto sì, concordo con te, "smunto mestiere"...

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                    • Curiosamente in questo proprio in questo periodo mi ritrovo a guardare un film polacco con protagonista un immigrato ucraino, Non cadrà più la neve di Małgorzata Szumowska (a questo giro supportata in cabina di regia dal suo co-sceneggiatore).

                      Come in altri film che ho visto della regista, si parte dal corpo per andare più a fondo, dopo l'anoressia di Body e il trapianto facciale di Mug, stavolta si parla di massaggi.

                      Di base il film è una specie di Teorema/Visitor Q all'inverso, dove il diavolo tentatore è sostituito da un angelo se non salvifico almeno terapeutico e se non terapeutico quantomeno palliativo (il pessimismo del film si accresce a ridosso del finale), con tanto di poteri sovrannaturali probabilmente generati dall'incidente di Chernobyl (e qua scappa pure la citazione puntuale della scena della bambina col bicchiere scena di Stalker).

                      Il film è giocato tutto sulla contrapposizione tra movimento e immobilità, da una parte l'angelo/immigrato (che però si chiede se ci si possa considerare stranieri in terra straniera quando non si ha memoria della propria patria) che si sposta col suo lettino per massaggi da una casa all'altra del benestante quartiere alto borghese, flessuoso nei suoi movimenti da ballerino; dall'altra le famiglie che vi abitano, bloccate nei loro problemi quotidiani fatti di gelosie, fisime, vanità, paura dell'invecchiamento e della perdita della bellezza, infelicità e via dicendo.
                      Da un lato la regia rigorosamente geometrica che ingabbia le schiere di abitazioni tutte uguali e i personaggi che (non) ci vivono, dall'altra gli inserti surreali che sfilacciano sempre più la narrazione sino a risultati di natura vagamente lynchiana, dove l'unico modo per provare a forzare la cella della realtà mondana è attraverso il salto nell'abisso.

                      I toni stanno dalle parti del dramedy (più seri verso la fine), con un'ironia a tratti anche grottesca, che punge nel vivo gli abitanti e le loro manie.

                      La neve del titolo ha significati ambivalenti, da una parte la neve vera che il protagonista adorava da bambino si trasforma nella neve radioattiva che gli porta via la madre, contaminandone inestricabilmente la purezza; dall'altra c'è la nevica finale, in concomitanza della temporanea scossa che il protagonista dà alla comunità con la sua presenza (e la sua, in parte prevedibile, uscita di scena), che per un po' ridà vita e movimento a quell'immobile scenario.
                      Ma è solo temporaneo e, come dice la didascalia finale (e il titolo), dal 2025 non cadrà più la neve.

                      Luminous beings are we, not this crude matter.

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                      • Potrebbe essere visto come un anti-Decalogo che orgogliosamente supera la plumbea e punitiva austerità dell'altra coppia Kieslowski e Piesiewicz ?
                        Magari non c'entra niente, ma lo spunto dell'elemento "perturbante" che "destabilizza" gli alto borghesi rimanda a "Su e giù da Beverly Hills" di P. Mazurski.
                        "...perché senza amore non possiamo che essere stranieri in paradiso"

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                        • Originariamente inviato da henry angel Visualizza il messaggio
                          Potrebbe essere visto come un anti-Decalogo che orgogliosamente supera la plumbea e punitiva austerità dell'altra coppia Kieslowski e Piesiewicz ?
                          Di Kieslowski, così su due piedi, non ci ho visto nulla, né nel contesto (il Decalogo parlava di gente povera o comunque "del popolo", sicuramente non privilegiati) né nei contenuti (le forze del destino e i dilemmi morali).

                          Al massimo per via del senso dell'umorismo un po' grottesco, può venirmi in mente Film Bianco.
                          Luminous beings are we, not this crude matter.

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                          • Limitless di Neil Burger

                            E' girato in un modo che...apriti cielo. Vi sfido a guardare i titoli di testa e poi venirmi a dire che avete comunque voglia di vedere il film per intero (e no, non è l'unica sequenza del genere lungo il film). In altri topic si criticava (a ragione imho) che il primo Saw aveva delle sequenze videoclippare, ma sono nulla in confronto a questa cosa.
                            Voto 5.5 per il concept sexy e perché c'è Bradley Cooper che col suo carisma riesce a distrarre dalle lacune della regia e della scrittura.
                            Ultima modifica di Cooper96; 20 marzo 22, 12:43.
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                            • Rusty - Il Selvaggio di Francis Ford Coppola (1983).

                              Parte 1

                              C’è uno scarto enorme tra Rusty - Il Selvaggio (1983), titolo scelto dalla distribuzione italiana, che farebbe pensare ad un classico film rissaiolo, rispetto all’originale Rumble Fish, con tutto il suo carico di significati metaforici, che inevitabilmente vengono persi, per spostare l’attenzione sulla figura del protagonista interpretato da un diciannovenne Matt Dillon, all’epoca specializzato in ruoli di disagio giovanile, contro una sistema sociale che lo soffoca e lo reprime, nella provinciale città di Tulsa in Oklahoma; questo atteggiamento di insofferenza, doveva essere ben presente in Francis Ford Coppola, che dopo essere divenuto negli anni 70’ il più grande regista del mondo, con ben 4 capolavori assoluti del cinema, pensa in grande, decidendo di sfidare il monopolio delle major di Hollywood, trasformando la sua American Zoetrope da mera casa di produzione, in un vero e proprio polo artistico indipendente a tutti gli effetti, un avamposto per portare avanti la politica degli autori, andando così contro le storiche case di distribuzione, arrivando però a bruciarsi a causa del massacro di critica e pubblico, nei confronti del suo film un Sogno Lungo un Giorno (1982), venendo costretto a vendere gli studios, per poter ripianare in parte gli enormi debiti contratti.
                              Da quell’anno Coppola dovrà mediare le proprie esigenze artistiche, non solo con i voleri delle major produttive, come del resto dovettero fare altri suoi colleghi del periodo in pieno reflusso degli anni 80’, ma anche cercare l’incasso a tutti i costi, per cercare di mettere apposto una situazione finanziaria disastrata; due romanzi di S.E. Hinton gli vengono in aiuto riuscendo ad adattarli in film; il primo è i Ragazzi della 56° strada (1983), dove nonostante le ingerenze produttive della Warner, ottiene un successo più che buono ai botteghini, consentendogli di poter girare il secondo film tratto sempre da un libro, a suo dire incompreso, della stessa autrice; Rusty - Il Selvaggio, questa volta finanziato dalla Universal, pellicola che secondo gran parte della critica segnerebbe il “ritorno alle origini” di Coppola, quando in realtà quest’ultimo prosegue con la sperimentazione tecnico-formale, interrotta bruscamente con un Sogno Lungo un Giorno.

                              Il bianco e nero con cui è girata la pellicola, non deve essere scambiato infatti per una maggior pretesa di realismo nella messa in scena da parte del regista, perché la città di Tulsa, come il protagonista Rusty James (Matt Dillon), si trova immersa in un’atmosfera di sospensione spazio-temporale, dove i fumi che si alzano, la nebbia, i fortissimi contrasti tra le luci ed i neri costruiti dalla fotografia di Stephen H. Burum, creano composizioni visive allucinate quanto oniriche, ammantando i giovani protagonisti immersi in una prigione immateriale, come quelle ombre delle scale di servizio, che si allungano all’infinito sul muro esterno, avvolgendo tutto il quadro dell’immagine. Coppola ha dichiarato come modelli espliciti l’espressionismo tedesco degli anni 20’ e le opere di Ejstenstein, ma in realtà il punto di riferimento principale, trova origine nel cinema del più grande regista della storia; Orson Welles, tramite quei suoi barocchismi visivi esasperati, l’uso estensivo dei grandangoli per alterare la resa delle immagini, l’adozione insistita dei piani sequenza e la profondità di campo vertiginosa grazie alla quale costruire la scena su un maggior numero di piani emotivi, tanto da chiedersi se ci si ritrova quindi innanzi ad un caso di forma che sovrasta la sostanza, come accusarono molti recensori americani. Probabile, perché in Orson Welles l’utilizzo di tali tecniche, era connaturato al titanismo dei propri protagonisti, che come demiurghi pretendevano di controllare e ri-plasmare la realtà empirica a proprio piacimento, salvo poi uscirne sconfitti, mentre nel film di Coppola l’uso di tali tecniche, se riesce a fare di Tusla un non-luogo, grazie anche alle scenografie di Dean Tavoularis intrise di uno spoglio gigantismo, squarciato da fonti di illuminazioni assurde sin dalla prima sequenza ambientata nella tavola calda, non si sposa molto bene con alcuni personaggi, colpa anche di qualche scelta di casting in ruoli di contorno non proprio felice; se Dennis Hooper risulta ottimo nel ruolo del padre alcolizzato fallito, con dei discreti Diane Lane e Laurence Fishburne nonostante il tempo limitato sullo schermo, invece Diana Scarwid nel ruolo della drogata Cassandra è troppo sopra le righe nel tono dei dialoghi, mentre Nicholas Cage, anche da giovane si dimostra la solita sciagura attoriale, caricando sempre troppo la recitazione, tendendo a strafare, invece di limitarsi all’essenziale.




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                              • Parte 2

                                Il protagonista, Rusty James, soffre del medesimo problema del suo modello di riferimento, il troppo esaltato James Dean di Gioventù Bruciata (1955), per il suo volersi porre in modo autoritario come icona generazionale di “default” (con indosso jeans, canotta bianca e fascetta nei capelli), senza però una forte costruzione umana alla base della sua ribellione senza causa, perchè Coppola, oltre che guardare formalmente alle avanguardie europee, avrebbe dovuto anche analizzare meglio i ritratti giovanili d’oltreoceano, ben più profondi e sfaccettati rispetto a quello di Rusty, poichè a differenza sua, trovavano la ragion d’essere della loro ribellione non solo in sè stessi, ma soprattutto verso le cause esterne del malessere; epigoni a cui ispirarsi potevano essere il Zbigniew Cybulski di Cenere e Diamanti (1958) con la sua fede nell’ideale, passando per la rabbia irriverente di Albert Finney in Sabato Sera-Domenica Mattina (1960) oppure la presa di coscienza anti-sistema del Tom Courtenay di Gioventù Amore e Rabbia (1963), finendo con le nevrosi anti-familiari di Lou Castel, ma anche restando in casa, l’ossessione competitiva auto-distruttiva del Paul Newman dello Spaccone (1961), sarebbe stato un punto di riferimento da seguire decisamente migliore, rispetto alla ribellione intrisa di un esistenzialismo metafisico banale della pellicola di Nicholas Ray, a cui Coppola si ispira nel costruire il suo Rusty James; però la relativa debolezza di scrittura, viene fortunatamente sopperita dall’ottima tecnica registica del cineasta, dove talvolta riesce a creare sequenze pregne di umanità, con una forte carica di originalità visiva quanto intrise di poesia cinematografica, come la dissociazione tra mente-corpo di Rusty, quando viene tramortito in un tentativo di rapina.
                                La sostanza ritrova maggior forza, quando il regista riprende in mano il proprio cinema, puntando ad una riflessione sul tempo trascorso, tramite nuvole riprese con la tecnica del time-lapse, le numerose inquadrature degli orologi (compresa quella di un enorme quadrante senza lancette) e l’uso di una colonna sonora a percussioni del batterista Stewart Copeland, per creare l’idea di un tempo in via di esaurimento, accentuando così la percezione di un presente mediocre, vissuto da parte di Rusty nel grigiore più totale, immerso tra il fallimento di un padre alcolizzato (Dennis Hooper) e l’assenza di una madre fuggita in California anni addietro, trovando un senso di compiutezza solo nelle continue risse, anelando ai bei tempi passati dell’epoca d’oro delle bande, un passato mitizzato dal ragazzo, mai esistito in realtà, dove però la figura di spicco era il fratello Motorcycle boy (Mickey Rourke), del quale vorrebbe emularne le gesta. Coppola da varie interviste ha dichiarato di aver girato il film, a causa della forte identificazione personale con il tema del rapporto tra fratelli, dove il minore vede in quello maggiore un vero e proprio mito da eguagliare, non a caso il film nei titoli di coda, contiene la dedica al fratello del regista August.

                                Il legame tra Rusty James e Motorcycle boy (non ha nome), nella trasposizione filmica, guadagna in profondità ed approfondimento, dove quest’ultimo appena tornato in città dopo essere scomparso per oltre due mesi, si avvale del carisma da bello e dannato del proprio interprete Mickey Rourke (quando aveva ancora un viso non devastato dalla chirurgia estetica), un anti-eroe byroniano dai tratti angelici, che sovrasta di netto il collega Matt Dillon, tramite una recitazione totalmente alienata quanto straniata rispetto al contesto in cui si aggira, dove i discorsi degli altri personaggi gli rimbombano nella mente distrattamente, mentre proietta il suo sguardo sempre altrove, in un’eterna insoddisfazione esistenziale, volendosi allontanare dallo squallore delle strade notturne, continuamente ingrandite dagli obiettivi grandangolari, accentuando la sensazione di vuoto.
                                In molti giudicano Motorcycle boy un pazzo, i suoi discorsi, per tanti personaggi sono intrisi di un intellettualismo contorto, incomprensibili per degli esseri primitivi dediti solamente a delle “gloriose battaglie per il regno”, ma secondo una descrizione fattane dal padre, è un ragazzo che vive in un’era sbagliata (una definizione calzante per Coppola dagli anni 80’ in poi), questo al contempo ne fa una persona dalla spiccata percezione analitica, un filosofo di antropologia sociale, soprattutto nell’iconica sequenza in cui fissa i “rumble fish combattenti siamesi”, unici elementi colorati del film, metafora della pulsante vitalità di un giovane come Rusty; ma imprigionati come lui in un luogo ristretto che finisce solamente con l’accentuare la loro indole aggressiva, che verrebbe invece attenuata in uno spazio più aperto come il fiume, se non addirittura l’oceano, ponendosi così al di fuori delle restrizioni sociali imposte da una società soffocante, limitata e repressiva, come il poliziotto che segue ossessivamente Motorcycle boy, in cerca di un’occasione per toglierlo dalla circolazione. Massacrato ignobilmente dalla critica americana alla sua uscita, nonché flop devastante ai botteghini (2 milioni di incasso su un budget di 10), fece rimpiombare Coppola nei guai finanziari, pregiudicandone il prosieguo di carriera, seppur le recensioni europee furono invece molto favorevoli, comprese quelle di un nutrito gruppo di critici nostrani tra cui Kezich, Moravia, Grazzini, Craspi e Vito Zagarrio sul castoro dedicato al regista; un film senz’altro da riscoprire, potendo approfittare di un’eccellente edizione in Blu Ray, con vari contenuti speciali, giunta nel nostro paese.

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