Originariamente inviato da Il Borg
Delusione, non c’è che dire. Inutile ripetere quanto attendessi questo film, quanto speravo di ritrovarmi davanti un film intenso, vibrante, pieno del lirismo a cui ci ha abituati Terrence Malick, ma anche di solida tensione drammatica . Niente di tutto questo. O meglio, ogni inquadratura urla talmente tanto il proprio desiderio di essere una scena madre, un momento infinitamente significativo, che finisce inevitabilmente per soffocarsi da sola.
E allora via con quella cinepresa che incessantemente sfiora, tallona, incalza, danza con ogni personaggio e ambiente o elemento naturale, via con quella voce off sussurrata a un Dio che come sempre ha di meglio da fare che ascoltarci (soprattutto i personaggi di questo film), con un ‘insistenza tale che favorisce soltanto un mal di testa degno solo di un bruttissimo 3D riconvertito, piuttosto che reale partecipazione ed empatia. Ho provato un senso di distacco per quello che vedevo sullo schermo come poche altre volte. E non c’entra la narrazione episodica e anti-narrativa con le sue continue parentesi naturalistiche, è proprio una mancanza di coesione emozionale. Manca quell’alchimia che riesce a coinvolgerti anche quando stai seguendo una storia non narrata nel modo più convenzionale.
Malick è davvero affascinato, avvinto, dalla natura ma stavolta si è fatto soverchiare come non mai dalle sue splendide istantanee. E il troppo incanto disincanta. Malick (quante volte è stato detto? Ma del resto è una cosa così evidente del suo stile) riesce letteralmente a far recitare la natura, la fa palpitare, sussultare con un soffio di vento o con un corpo che si immerge in un mare d’erba mentre una mano ne accarezza i ciuffi. La natura è per Malick un attore tanto quelli scritturati e pagati, è il suo attore preferito, ma inizia a non contenerlo più e a farlo, ehm, gigioneggiare a più non posso…
Aggiungiamo pure che i conflitti della famiglia, presi come paradigma per una riflessione sull’illimitato, non è che siano così coinvolgenti, e alla lunga, visto anche quanto il regista non si preoccupi d’essere ripetitivo, scocciano, sfiancano.
Posso pure riconoscere le altissime ambizioni del film, posso pure riconoscere che quest’opera sia il risultato di una ben precisa ricerca o evoluzione formale, ma se l’apprezzamento per un film si definisse dai propositi di chi lo ha pensato piuttosto che dal risultato che ci scorre davanti agli occhi, staremmo belli freschi. La poesia non sta in ciò che si suppone l’artista visivo voglia dimostrare (magari dopo variegate analisi di terzi) ma in ciò che semplicemente mostra, nella solidità e nell’autorevolezza della pura forma.
E questa volta ho trovato la forma generale estremamente esausta. Non lo nascondo, ammetto che nella prima mezz’ora il film m’ha ingannato: sembrava ci fossero le premesse per un capolavoro epocale, poi Malick decide di entrare nella porta delle stelle aperta dal monolite nero di 2001, e tra visioni cosmiche ottenute da sostanze disciolte in altre sostanze (e che danno esattamente l’idea del processo con cui sono state realizzate, anche se qualche effetto è incredibilmente bello) e processi geologici e biologici di una Terra primordiale, arriviamo alla CGI stentatissima di alcuni dinosauri, che fortunatamente vediamo molto poco. Ecco, da quel momento inizia a baluginarti il sospetto che Malick stia un pochettino deragliando. Non preoccupatevi, il sospetto verrà confermato fino allo strusciante “balletto” catartico finale. Malick è un grandissimo artista, nessuno lo nega, e questa è purtroppo la sua definitiva farneticazione filosofico-visuale.
Brad Pitt? Ogni tanto fa il severo e s’incazza, ma tanto lo sa che la sua è soltanto una maschera. Jessica Chastain? Trasogna e invoca. I bambini? Gironzolano qua e là, talvolta turbati.
E ti viene un bisogno quasi fisico di rivederti “La rabbia giovane”, “I giorni del cielo” e quella meraviglia infinita de “La sottile linea rossa”…
REAZIONI IN SALA: sono andato a vederlo in un cinema d'essai, quindi con spettatori abituati anche a un tipo di cinema, diciamo così, "più impegnato". Sbuffi e sbadigli insondabili. Davanti a me c'era Francesco Maria Rossi degli Avanzi di Balera (fantasico gruppo comico aretino) che se l'è dormita per tutto il tempo.
Sarà dura per il pubblico, io temo...
E allora via con quella cinepresa che incessantemente sfiora, tallona, incalza, danza con ogni personaggio e ambiente o elemento naturale, via con quella voce off sussurrata a un Dio che come sempre ha di meglio da fare che ascoltarci (soprattutto i personaggi di questo film), con un ‘insistenza tale che favorisce soltanto un mal di testa degno solo di un bruttissimo 3D riconvertito, piuttosto che reale partecipazione ed empatia. Ho provato un senso di distacco per quello che vedevo sullo schermo come poche altre volte. E non c’entra la narrazione episodica e anti-narrativa con le sue continue parentesi naturalistiche, è proprio una mancanza di coesione emozionale. Manca quell’alchimia che riesce a coinvolgerti anche quando stai seguendo una storia non narrata nel modo più convenzionale.
Malick è davvero affascinato, avvinto, dalla natura ma stavolta si è fatto soverchiare come non mai dalle sue splendide istantanee. E il troppo incanto disincanta. Malick (quante volte è stato detto? Ma del resto è una cosa così evidente del suo stile) riesce letteralmente a far recitare la natura, la fa palpitare, sussultare con un soffio di vento o con un corpo che si immerge in un mare d’erba mentre una mano ne accarezza i ciuffi. La natura è per Malick un attore tanto quelli scritturati e pagati, è il suo attore preferito, ma inizia a non contenerlo più e a farlo, ehm, gigioneggiare a più non posso…
Aggiungiamo pure che i conflitti della famiglia, presi come paradigma per una riflessione sull’illimitato, non è che siano così coinvolgenti, e alla lunga, visto anche quanto il regista non si preoccupi d’essere ripetitivo, scocciano, sfiancano.
Posso pure riconoscere le altissime ambizioni del film, posso pure riconoscere che quest’opera sia il risultato di una ben precisa ricerca o evoluzione formale, ma se l’apprezzamento per un film si definisse dai propositi di chi lo ha pensato piuttosto che dal risultato che ci scorre davanti agli occhi, staremmo belli freschi. La poesia non sta in ciò che si suppone l’artista visivo voglia dimostrare (magari dopo variegate analisi di terzi) ma in ciò che semplicemente mostra, nella solidità e nell’autorevolezza della pura forma.
E questa volta ho trovato la forma generale estremamente esausta. Non lo nascondo, ammetto che nella prima mezz’ora il film m’ha ingannato: sembrava ci fossero le premesse per un capolavoro epocale, poi Malick decide di entrare nella porta delle stelle aperta dal monolite nero di 2001, e tra visioni cosmiche ottenute da sostanze disciolte in altre sostanze (e che danno esattamente l’idea del processo con cui sono state realizzate, anche se qualche effetto è incredibilmente bello) e processi geologici e biologici di una Terra primordiale, arriviamo alla CGI stentatissima di alcuni dinosauri, che fortunatamente vediamo molto poco. Ecco, da quel momento inizia a baluginarti il sospetto che Malick stia un pochettino deragliando. Non preoccupatevi, il sospetto verrà confermato fino allo strusciante “balletto” catartico finale. Malick è un grandissimo artista, nessuno lo nega, e questa è purtroppo la sua definitiva farneticazione filosofico-visuale.
Brad Pitt? Ogni tanto fa il severo e s’incazza, ma tanto lo sa che la sua è soltanto una maschera. Jessica Chastain? Trasogna e invoca. I bambini? Gironzolano qua e là, talvolta turbati.
E ti viene un bisogno quasi fisico di rivederti “La rabbia giovane”, “I giorni del cielo” e quella meraviglia infinita de “La sottile linea rossa”…
REAZIONI IN SALA: sono andato a vederlo in un cinema d'essai, quindi con spettatori abituati anche a un tipo di cinema, diciamo così, "più impegnato". Sbuffi e sbadigli insondabili. Davanti a me c'era Francesco Maria Rossi degli Avanzi di Balera (fantasico gruppo comico aretino) che se l'è dormita per tutto il tempo.
Sarà dura per il pubblico, io temo...
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